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sabato 27 dicembre 2014

Stupore che nasce dalla fiducia - Riflessione sul Vangelo di domenica 28 dicembre 2014

Un vecchio proverbio dice "Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi". Tralasciando, per ora, la seconda parte che affronteremo a suo tempo, ci soffermiamo sulla prima. Natale è la festa che, più di tutte le altre, si desidera trascorrere in famiglia,. anche a costo di fare lunghi viaggi o viaggi brevi ma molto trafficati!
Famiglia! Nell'anno che si sta concludendo questo vocabolo, o meglio il concetto/valore che esprime, è stato spesso discusso e dibattuto, si sono fatte sempre più pressanti le richieste di una parte della società di estendere il concetto di famiglia e di matrimonio anche a situazioni che, per lo meno da un punto di vista prettamente letterale, non lo sono. Quella stessa parte della società continua con insistenza a chiedere però anche la facilitazione del divorzio, diffondendo così l'idea che ognuno debba avere diritto di fare famiglia con chi vuole, come vuole e fin quando vuole.
Mentre questo dibattito culturale prosegue con toni spesso fastidiosi e non senza falsità, nella vita reale molte famiglie si sfasciano tra grandi sofferenze, molti giovani vorrebbero poter iniziare questa meravigliosa avventura ma la società non li favorisce, anzi sembra quasi ostacolarli, molti bambini vengono abbandonati senza che nessuno se ne possa prendere cura perché le procedure di adozione sono complicate da una burocrazia fine solo a se stessa.
In questa situazione, ha ancora senso parlare di famiglia? Sì, anzi oggi ce n'è ancora più bisogno!
La Parola di Dio di questa domenica ci presenta due famiglie, che a noi possono sembrare un po' speciali, ma che ci fanno comprendere cosa significhi essere famiglia secondo il disegno di Dio: Abramo e Sara con Isacco e Maria e Giuseppe con Gesù.
Lasciamoci guidare da queste famiglie e permettiamogli di insegnarci ad essere famiglia.
Abramo e Sara ci insegnano la fiducia in Dio, una fiducia piena e completa, un vero abbandono alla sua volontà. Si fidano così tanto di Dio da offrirgli anche quell'unico figlio, avuto miracolosamente in vecchiaia, non chiedono il perché di una richiesta così strana, sanno che Dio ha sempre un'ottima ragione per fare quello che fa. La richiesta di Dio sembra in piena contraddizione con quanto promesso ma sanno che Egli mantiene sempre le sue promesse.
Anche Maria e Giuseppe ci insegnano la fedeltà a Dio, alle sue richieste, al suo disegno, in modo, forse, più ordinario, più quotidiano. Hanno accolto un figlio decisamente speciale ma si comportano come genitori comuni, compiono con fedeltà quanto prescritto dalla Legge di Mosè e presentano Gesù al Tempio come ogni altra famiglia ebrea. Quando poi Simeone profetizza che Gesù è la "salvezza di Israele" e così anche la profetessa Anna, Maria e Giuseppe restano stupiti. Questo stupore nasce proprio dal pieno abbandono alla volontà di Dio, sanno bene chi è quel bambino eppure si lasciano stupire, non hanno fatto dei progetti o dei piani su di Lui, si lasciano guidare ogni giorno, in ogni situazione, per cui tutto ciò che riguarda il Bambino è per loro motivo di sorpresa. Maria e Giuseppe si fidano di Dio, non danno nulla per scontato, sanno bene che Dio ha un disegno che a noi è spesso incomprensibile perché siamo troppo piccoli per poterlo vedere tutto, ma sanno che è un disegno di salvezza e che ognuno di noi ha un compito preciso in questo disegno.
Impariamo da Abramo e Sara e da Maria e Giuseppe a fidarci di Dio, ad abbandonarci alla sua volontà, mettiamo da parte paure, sospetti, dubbi e incertezze, chiediamo al Signore cosa vuole dalla nostra famiglia e per la nostra famiglia. Lasciamoci sorprendere da Dio, rifiutiamo la tentazione di pensare di sapere come debbano andare le cose, di farci un nostro disegno o di pensare che la nostra vita non possa essere diversa da com'è.
Se Dio guida la nostra famiglia, affronteremo comunque difficoltà e momenti di prova, come li hanno affrontati Abramo e Sara e Maria e Giuseppe, ma sapremo che anche attraverso quelle fatiche e quei dolori Dio compirà il suo disegno di salvezza e sarà una meraviglia.

sabato 20 dicembre 2014

Messaggeri dell'amore - Riflessione sul Vangelo di domenica 21 dicembre 2014

La pagina dell'Annunciazione è una di quelle più conosciute, la Chiesa, infatti, ce la fa ascoltare in diversi momenti dell'anno liturgico.
È un brano che amo molto e che medito sempre con molta gioia perché è una vera miniera inesauribile di amore di Dio!
Spesso si legge questa pagina nella prospettiva di Dio che compie le sue promesse o di Maria che accoglie la volontà di Dio. C'è però un terzo personaggio che viene considerato poco, quasi dimenticato: l'Arcangelo Gabriele.
Vi propongo di provare a rileggere questo evento così importante nella prospettiva dell'angelo.
Gabriele è un messaggero di Dio, angelo significa proprio colui che porta un messaggio, che riceve il compito di portare la notizia più importante della storia dell'umanità: Dio si fa uomo!
Mi piace immaginarlo trepidante mentre parte dal Paradiso e arriva a Nazareth.
Io avrei già cominciato ad avere qualche perplessità: perché proprio Nazareth? Un paesetto che nessuno conosce, di cui non c'è alcuna traccia nella Scrittura, non è mai successo nulla a Nazareth...
Ecco l'incontro con Maria che è una ragazza giovane e semplice, bella e graziosa, umile e indifesa, già anche promessa sposa.
Io a questo punto mi sarei chiesto se non avessi capito male, se non mi fossi sbagliato indirizzo, avrei pensato a una persona più importante, più titolata, più sicura economicamente, più tutelata giuridicamente, avrei anche chiesto a Dio "ma sei proprio sicuro?"
Gabriele invece come vede Maria, vede la sua umiltà, la sua semplicità, la sua docilità capisce che è proprio la persona giusta perché Dio sceglie così, non prende i forti, i sicuri, i perfetti, Dio sceglie i deboli, gli umili, i semplici.
Gabriele sapeva che stava portando un grande annuncio, qualcosa che avrebbe potuto spaventare molto la giovane Maria, per cui mi piace immaginare che le sue parole fossero cariche di attenzione e di delicatezza per non turbare ma anche piene di entusiasmo e gioia per trasmettere la trepidazione di tutto il Paradiso nell'attesa della risposta di Maria.
Anche a noi Dio ha affidato un annuncio speciale, dobbiamo far sapere ai nostri fratelli che hanno un Padre che li ama, che hanno un amico e fratello che per loro ha dato la vita, che hanno uno Spirito che li colma d'amore e di gioia. È un annuncio importantissimo e preziosissimo, allontaniamo le tentazioni di decidere chi sia degno o pronto a ricevere questo annuncio, non sta a noi scegliere! Rendiamo grazie a Dio che si è così tanto fidato di noi da affidarci questo compito così importante e portiamo il suo amore ad ogni persona che incontriamo. A qualcuno lo potremo dire apertamente, con altri potremo permetterci solo un gesto o un sorriso, non importa, l'amore di Dio ha una potenza dirompente che sana e guarisce le ferite, che conforta e incoraggia. A noi sarà sembrato solo un sorriso fatto a una persona che pensiamo impermeabile alla grazia di Dio ma quel sorriso, carico del Suo amore, potrà essere portatore di vita nuova.

sabato 13 dicembre 2014

Testimoni della delicatezza di Dio - Riflessione sul Vangelo di domenica 14 dicembre 2014

Alcuni anni fa, nel comporre una breve descrizione di me per un sito internet, scrissi che ero convinto che la maggior parte dei nostri problemi di fede nascono da una idea errata che abbiamo di Dio. Ora dopo quasi otto anni di ministero ne sono ancora più convinto.
Penso sia capitato a tutti di affrontare un periodo nella vita in cui di Dio avevamo l'idea di un giudice severo e inflessibile, pronto solo a punire quello che di male facciamo, che parla con la voce grossa e minacciosa, insomma qualcuno di cui aver paura. Forse quel momento lo abbiamo superato, forse abbiamo cambiato idea o forse la pensiamo ancora così. Non so voi, ma a me non piace molto quando qualcuno si fa di me un'idea sbagliata, magari distorta dall'opinione di chi mi disprezza. 
Con Dio, spesso, noi facciamo proprio così, ci facciamo un'idea di Lui deformata da chi lo disprezza, manipolata dalle menzogne del maligno.
Vogliamo, allora, dargli un'altra possibilità? 
Il Vangelo di questa domenica ci offre una buona occasione per comprendere bene come Dio voglia agire nella nostra vita. 
Se davvero Dio fosse un prepotente che vuole imporci la sua volontà con la forza, quasi sicuramente lo farebbe con "effetti speciali" degni dei più roccamboleschi film di Hollywood, farebbe sentire la sua imponente voce e poi farebbe di noi quello che vuole. 
Non so a voi, ma a me non è mai capitato di sentire il vocione di Dio, né mi ha mai costretto a fare quello che voleva Lui.
Lo stile di Dio è ben diverso. Vuole essere così delicato e rispettoso della nostra libertà che non inizia mai parlandoci direttamente ma mandandoci qualcuno che ci parli di Lui. In alcuni momenti sembra quasi timido ma non è timidezza ma delicatezza e tenerezza per ciascuno di noi.
Dio manda Giovanni il Battista perché sia testimone della Sua luce che è il Signore Gesù. Il testimone è colui che ha vissuto un evento, che conosce una persona, e ne parla, lo racconta e così fa sorgere la curiosità e il desiderio dell'incontro. Incontro che però rimane totalmente una scelta nostra.
Nella vita di ciascuno di noi Dio ha mandato tanti Giovanni Battista, tanti fratelli che, prima di noi, hanno scelto di lasciarsi amare da Dio, che si sono lasciati illuminare dalla Sua Luce e sono poi venuti a raccontarcelo, a testimoniarci l'immensità del Suo amore per ciascuno di noi.
Dio non è un invadente che si presenta alla porta di casa e la sfonda perché vuole entrare.
Dio è un amante delicato che vuole disturbarci il meno possibile, che vuole lasciarci liberi anche di dirgli di no perché sa bene che l'amore è possibile solo nella libertà. 
Se, per una volta, usiamo bene la nostra libertà, non per soddisfare i nostri capricci, ma per dire di sì al Signore che viene nella nostra vita a liberarci dalle nostre schiavitù, viene a fasciare le nostre ferite, viene ad amarci con tutto se stesso, troveremo in lui la nostra salvezza. 
I nostri Giovanni Battista ci portano, però, solo fino alla soglia dell'incontro con il Signore Gesù, ci conducono fino al desiderio di dirgli "eccomi, Signore, voglio conoscerti". Da lì in poi sarà il Signore a parlare con noi, a farci sentire il suo amore, a renderci capaci di vedere i tanti doni del suo amore che quotidianamente pone nella nostra vita, a farci scoprire di non essere soli ma che tutti quelli che ho accanto a me sono miei fratelli, che siamo tutti parte della grande famiglia di Dio che è la Chiesa universale.
Questa esperienza del suo amore, vero, concreto, reale, trasforma poi anche ciascuno di noi in un Giovanni Battista, in un testimone di luce per i fratelli che sono nel buio del dolore, della sofferenza, del male e del peccato. Potrebbero sorgere in noi timori di non essere capaci di un compito tanto grande. È vero, non ne siamo all'altezza! Ecco perché non dobbiamo portare il nostro pensiero ma la nostra testimonianza, perché dobbiamo annunciare quello che il Signore ha fatto nella nostra vita, senza paure ma anche senza la ricerca di una gloria personale.
Potremmo anche pensare di non essere capaci di parlare, di esprimere quella che è la nostra esperienza dell'amore del Padre. Il più delle volte non ce n'è bisogno! Se abbiamo accolto in noi il Signore che è Luce diventeremo noi stessi luminosi, ce lo leggeranno negli occhi e ci chiederanno di portarli dal Signore perché chi ha incontrato noi vorrà incontrare colui che ci ha così trasformato.
Sono ben cosciente che a molti questo discorso possa sembrare un po' troppo idealistico, forse anche una bella favola da raccontarsi sperando di alleviare un po' le noie e le sofferenze della vita.
Io, però, so che è la verità, è quello che ho vissuto e vivo ogni giorno nella mia vita e che vedo nella vita di tante persone accanto a me le cui vite sono state trasformate per sempre dall'incontro con il Signore.
Non ci resta, allora, che lasciarci accompagnare dai nostri Giovanni Battista all'incontro con Lui, a dirgli il nostro sì, il nostro eccomi.

venerdì 28 novembre 2014

Svegli e pronti a riconoscere il Signore che viene - Riflessione sul Vangelo di domenica 30 novembre 2014

Avete mai visto una persona sonnambula?
Il sonnambulo è uno che cammina, parla e compie azioni elementari e quotidiane restando completamente addormentato. Lasciamo ai medici di spiegarci le cause di questi disturbi del sonno ma teniamo l'immagine di una vita da addormentati.
Questa domenica iniziamo un nuovo anno liturgico, inizia un nuovo Tempo di Avvento e, nella pagina di Vangelo che la Chiesa ci consegna, Gesù ripete più volte l'invito a vegliare senza addormentarci . Quante persone oggi vivono una vita da addormentati, una vita da sonnambuli.
La vita da addormentati è ripetitiva, le giornate si susseguono tutte uguali, le settimane identiche le une alle altre, ogni giorno si ripetono le stesse azioni, gli stessi gesti. Ci si è rassegnati a una vita piatta e monotona, delusi perché non si ha quello che si vorrebbe, a volte si tenta di distrarsi con mille e una attività che riescono solo a stancare e a chiudersi ancora più in se stessi. Ecco, questa è una vita da addormentati. Una vita chiusa in se stessa, che non tiene conto di quello che accade intorno, che non si preoccupa di chi ha accanto, che forse sogna cose straordinarie ma poi è stanca di ciò che ha. Chi vive da sonnambulo non è solo chi ripete automaticamente le azioni quotidiane vivendo una vita ingrigita e noiosa, ma anche chi si perde in tante attività diverse senza chiedersi mai cosa valga veramente la pena fare, cosa realmente soddisfi.
Anche questa domenica Gesù ci propone una vita diversa, perché non ci ha creati per vite ordinarie, monotone quasi fossero stampate in serie, il Signore ha preparato per ciascuno di noi una vita unica e meravigliosa, una vita di gioia vera, piena, autentica.
Questo cambio di prospettiva e di vita deve partire da una consapevolezza: noi siamo già parte della famiglia di Dio, siamo già nella sua casa, ci ha già affidato la sua grazia, ha già chiamato ciascuno di noi a un compito specifico per la gioia e il bene personale e comune.
La mini parabola che Gesù racconta nel Vangelo di questa domenica si apre con un padrone che parte per un viaggio e lascia a ciascuno dei suoi servi un compito specifico in casa propria: il padrone è Lui e i servi siamo noi.
Iniziamo, allora, a pensarci non come a dei singoli che interagiscono con altri singoli ma come membri di una sola famiglia in cui ciascuno è prezioso per gli altri. Riconosciamoci destinatari di una fiducia speciale del Signore Gesù che ci chiama a cooperare, ad essere amministratori dei suoi beni, della sua grazia. Quando si amministra la proprietà di qualcun altro bisogna compiere quello che vuole il padrone del bene amministrato. Mettiamoci, dunque, in ascolto del Signore, chiediamogli di indicarci la sua volontà, ciò che vuole da noi e per noi, per farlo dobbiamo essere ben svegli e imparare a riconoscere i segni della sua presenza nella nostra vita.
Molte persone mi hanno chiesto come si faccia a capire la volontà di Dio. Di solito io rispondo che capire la volontà di Dio non è poi così difficile, ciò che è veramente arduo è volerla capire.
Ci sono molte resistenze in noi che ci vogliono trattenere nel sonno di una vita monotona e noiosa, proprio come quando alla mattina presto suona la sveglia e preferiremmo restare ancora a letto.
Ma come al mattino raccogliamo le nostre forze e con un atto di volontà quasi eroico decidiamo di vincere le resistenze e di alzarci per iniziare la giornata, così dobbiamo vincere tutte le nostre paure e i nostri dubbi con la fiducia in Dio, nel suo amore fedele, nella sua puntualissima provvidenza e iniziare a desiderare di compiere la sua volontà.
Com'è compiere la volontà di Dio? Vorrei poter dire che ci riesco sempre, ma sarei solo superbo, diciamo che ci provo spesso e qualche volta ci riesco anche. Quando lasci che sia Dio a guidare la tua vita tutto cambia, non fuori, non negli eventi o nei compiti, ma nel tuo modo di vedere e di percepire la tua stessa vita. Quando scegli di lasciarti condurre dal Signore, quando intuisci che nella sua volontà tu troverai la pace tanto cercata, cominci a tenere gli occhi aperti e a cercare i segni della sua presenza, come quando cerchi un amico in mezzo a una folla.
Compiere l'opera di Dio dona tanta libertà perché comprendi che, proprio perché stai compiendo opere non tue ma Sue, pensa Lui a tutto, con una puntualità che è sempre impressionante e anche quando capita qualche ritardo o contrattempo, scopri poi che non era casuale.
Scegliere di compiere la volontà di Dio, e non i propri desideri e capricci, magari non cambia di molto la tua vita sul piano degli impegni, del lavoro, delle attività ma la trasforma dall'interno. Non esistono più due giorni uguali, ogni giorno è una sorpresa anche se agli occhi di tutti sembra che tu abbia fatto le stesse cose di ieri. Ogni giorno è diverso perché riesci a vedere e a riconoscere il Signore presente nella tua vita, accanto a te, in una pagina di Vangelo che sembra scritta per te, nel sorriso di un vicino, nel saluto di un amico, nel gesto di uno sconosciuto, nel rosso di un tramonto o nella trasparenza dell'acqua di una fontana.
Ma per vedere tutto questo dobbiamo stare ben svegli!
Questo Tempo di Avvento che iniziamo sia, quindi, tempo di attesa e di veglia, tempo in cui impariamo a riconoscere il Signore accanto a noi e scegliamo, una volta per tutte, di fidarci di Lui come Egli si fida di noi per cominciare a compiere la sua volontà e vivere la Vita Nuova che ci ha donato.


venerdì 21 novembre 2014

Un'Eredità preparata per noi - Riflessione sul Vangelo di domenica 23 novembre 2014

"C'era una volta, in un regno lontano lontano..." le favole che ci raccontavano quando eravamo bambini iniziavano così e si concludevano "e vissero sempre felici e contenti". Così, noi che siamo cresciuti in una Repubblica, ci siamo fatti l'idea che un regno sia un luogo ideale e favoloso (nel senso più letterale del termine), dove tutti vorremmo vivere ma anche completamente irreale, una bella favola, appunto, in cui rifugiarci con la fantasia. Fin qui nulla di male, le favole fanno bene ai bambini non dobbiamo però rimanere imprigionati in quell'immagine di regno perché ne rimarrebbe deformata anche la nostra idea di cosa sia il Regno di Dio.
Già, ma cos'è il Regno di Dio?
Questa domenica celebriamo la festa di Cristo Re dell'Universo e il Vangelo ci parla dell'ingresso nel Regno di Dio che avverrà attraverso il Giudizio Universale. Per esperienza pastorale posso affermare che molte persone hanno del Regno di Dio e del Giudizio Universale un'idea ben diversa da quello che Gesù stesso ci dice. Proviamo, allora, a mettere da parte le nostre precomprensioni e a lasciarci guidare dalla Parola di Dio a comprendere bene.
Ai tempi di Gesù un regno era ben più di un apparato statale di servizi per il suddito, come per lo più invece oggi pensiamo allo Stato in cui viviamo. Vivere in un regno era segno di appartenenza ad una comunità, era la garanzia di non essere soli, di essere difesi, di essere custoditi. Il regno nell'antichità, e forse fino alla metà del XVIII secolo, era un po' come una famiglia allargata, il re non era solo colui che governava ma era la guida donata da Dio per affrontare il pericoloso cammino della vita. Non che mancassero ribellioni e rivolte ma sostanzialmente il regno a cui si apparteneva era un po' come fosse casa propria.
Gesù, scegliendo di utilizzare l'immagine del Regno, intende farci comprendere il Padre ha preparato per noi una casa dove potremo sentirci al sicuro, dove Egli si prederà cura di noi, dove ci donerà la sua gioia, dove non ci sarà più sofferenza ma dove saremo immersi e riempiti del suo amore. Ma come si fa ad entrare in questa realtà? Ancora una volta è questione di amore, saremo giudicati su come abbiamo amato.
Il Giudizio Universale, che paura!
No, non c'è da averne paura, dobbiamo però capire cosa il Signore si aspetta da noi.
Gesù, come il pastore che sceglie e separa le pecore dalla capre, separerà i giusti dai malvagi e il criterio di distinzione sarà l'amore concretamente vissuto "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere...".
Attenzione però, il criterio non sarà quanto bene avremo fatto ma quanto gratuitamente l'avremo fatto. Nella grande parabola che il Vangelo di questa domenica ci offre, i giusti rispondono meravigliati al Signore "quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare...?" ogni volta, cioè, che hanno sfamato un povero non l'hanno fatto con l'intenzione di fare una buona azione per il Signore, per guadagnarsi il Paradiso, ma semplicemente per amore del fratello povero, non perché vi hanno riconosciuto Gesù "travestito da povero" e quindi hanno cercato di tenerselo buono ma solo e unicamente come gratuito atto d'amore.
Al contrario i malvagi chiederanno al Signore "ma quando ti abbiamo visto affamato e non ti abbiamo servito?" ovvero "se avessimo saputo che in quel povero ti eri nascosto tu, ti avremmo servito sicuramente! Non ci saremmo certo fatti scappare l'opportunità di fare bella figura!"
La differenza tra i due atteggiamenti è più semplice di quanto non sembri. I malvagi pensano che il Paradiso sia un premio, una ricompensa data a chi ha fatto dei favori al Signore, a chi si è arruffianato il capo. I giusti invece hanno semplicemente scelto di vivere una vita d'amore, un amore concreto che si fa vicino a chi ha bisogno, in modo gratuito, senza attendere nulla in cambio.
Il Regno dei Cieli non è un premio ma un'eredità.
L'eredità dice una doppia appartenenza: poiché io appartengo ad una famiglia, il patrimonio di quella famiglia è la mia eredità. Dunque se vogliamo entrare nel Regno di Dio dobbiamo esserne parte, dobbiamo vivere da quello che già siamo: figli di Dio, amando come Dio ama, gratuitamente. L'importante è l'intenzione con cui facciamo le cose: se l'elemosina è solo un modo per tacitarci la coscienza non serve a gran ché perché non è amore vero.
Sembra molto faticoso ma non lo è, siamo creati a immagine e somiglianza di Dio e quando amiamo come ama Lui, in modo gratuito, stiamo compiendo quanto è più proprio della nostra natura e la conferma è che stiamo bene, che siamo veramente felici.
Viviamo da figli del Padre ed entreremo in quell'eredità che è preparata per tutti noi: la gioia eterna della comunione con Dio.

sabato 15 novembre 2014

Questione di prospettiva - Riflessione sul Vangelo di domenica 16 novembre 2014

Ricordate la prima volta che vi hanno detto: "questo ora lo fai tu da solo, ormai ne sei capace"?
La prima volta che ci è stata affidata una responsabilità importante si sono agitati in noi tanti sentimenti diversi: il timore di non esserne capace, il desiderio di compiere il compito al meglio, l'attesa di vederne il risultato, ma soprattutto la gioia per la fiducia ricevuta.
Ricevere un incarico di responsabilità può essere letto come un segno di stima e di fiducia che ci fa sentire considerati e apprezzati, ma possiamo anche lasciar prevalere la nostra insicurezza o la nostra pigrizia e vedere quel segno di fiducia come una seccatura, è questione di prospettive diverse.
Gesù, con la parabola dei talenti, che ascoltiamo questa settimana, mette in luce questi due modi diversi di affrontare la responsabilità che, però, nascondono due modi diversi di vedere Dio.
Prima di osservare le reazioni dei servi, guardiamo il padrone che, ovviamente, simboleggia il Padre.
Il padrone della parabola affida a ciascun servo una determinata somma "secondo le sue capacità" e questa diversa distribuzione dei talenti non è un giudizio di merito, al contrario è segno di  una conoscenza attenta di ciascuno dei servi, non affida a nessuno un incarico più grande delle sue capacità, che poi possa schiacciarlo, né uno inferiore che significherebbe sfiducia e disprezzo. Il padrone non ama di più quello a cui affida di più, prova ne è il fatto che i primi due ricevono esattamente la stessa ricompensa.
Così è Dio, affida a ciascuno di noi dei doni, la sua grazia, il suo amore, a ciascuno secondo le sue capacità, non per schiacciarci né per darci contentini ma perché si fida di ciascuno di noi! Sembra strano ma è così, Dio si fida di ciascuno di noi! Ogni giorno ci affida i suoi talenti, la sua ricchezza che altro non è che la capacità di amare. Ogni giorno Dio ci rende capaci di amare concretamente chi abbiamo accanto, questa è la sua ricchezza che ci affida perché si fida, perché sa che saremo capaci di amare come ama Lui, perché vuole coinvolgerci nel suo disegno d'amore concreto, vero, reale. Nessuno ne è escluso, tutti riceviamo un tesoro d'amore da impegnare, da far fruttare, ciascuno secondo le sue possibilità concrete e reali, non solo chi è giovane e in forma ma anche chi giace in un letto per la malattia, anche chi è infermo o anziano, a tutti, ogni giorno, il Padre affida il suo amore perché lo facciamo fruttare.
Potremmo trovarci, così, anche noi nelle condizioni dei servi della parabola. I primi due si impegnano a far fruttare quanto ricevuto, il terzo invece preferisce mettere da parte quanto affidatogli e continuare a pensare ai propri comodi. Questa reazione differente è questione di prospettiva, dipende da quale immagine hanno del padrone. I primi si scoprono amati e apprezzati dal padrone, riconoscono nella somma ricevuta il segno della fiducia del padrone e entrano in questa relazione di fiducia, rispondono con il loro impegno pieno e completo che diventa segno della loro gratitudine. Hanno compreso che il padrone li conosce, li apprezza e li ama. Il terzo invece vede il padrone in una prospettiva ben diversa, lo considera un uomo duro ed esigente, che sfrutta e pretende ciò che non gli spetta, lascia prevalere la sua paura e la sua pigrizia e decide di sotterrare il talento ricevuto, non vuole avere nulla a che fare con il padrone, non vuole entrare in relazione con lui.
E noi, con quale prospettiva guardiamo a Dio? Chiediamoci: chi è per me il Padre?
Molto molto spesso la nostra prospettiva è quella del terzo servo, guardiamo a Dio con sospetto, pensiamo che pretenda da noi troppo o che ci voglia impegnare con qualcosa che è al di sopra delle nostre possibilità, preferiamo restarcene tranquilli a pensare ai nostri affari piuttosto che lasciarci coinvolgere nei suoi progetti. Dio spesso ci sembra un giudice severo e inflessibile, che prima ci chiede molto e poi ci punisce, lasciamo prevalere la nostra paura, la nostra pigrizia, il nostro senso di frustrazione, lo scoraggiamento.
Tutti, nessuno escluso, ci siamo trovati a guardare a Dio dalla prospettiva del terzo servo, oggi il Signore Gesù ci dice di aprire gli occhi, di cambiare prospettiva, di iniziare a guardare il Padre per quello che è, di considerarlo come lo considerano i primi due servi.
Ci dice di riconoscere che il Padre si fida immensamente di noi, molto più di quanto noi non ci fidiamo di Lui, ci affida il tesoro del suo amore affinché lo riversiamo sui fratelli che abbiamo ogni giorno attorno a noi. Ci chiede di fidarci di Lui che ci conosce e ci ama, che non ci metterebbe mai in difficoltà, non ci affiderebbe mai qualcosa oltre le nostre capacità. Ci chiede di entrare in questa relazione di fiducia e responsabilità, di lasciarci coinvolgere nel suo progetto d'amore perché quello che ci affida è ben poco paragonato a quanto ha preparato per noi, perché scegliendo, oggi, di compiere la sua volontà vi scopriamo già la pienezza della nostra gioia.
Il terzo servo si è condannato da solo, ha scelto di non entrare nella relazione col padrone, ha deciso di auto escludersi e si trova così nella tristezza e nella disperazione. Così se ci ostiniamo a non entrare in relazione con Dio ci auto escludiamo dalla gioia autentica, dalla vita vera perché solo Dio è fonte di gioia e di vita nuova.
Allora non ci resta che cambiare prospettiva, iniziamo a riconoscere e ringraziare il Padre per la fiducia che ha in noi, anche se ci sembra esagerata, e rispondiamo con il nostro impegno a essere ogni giorno testimoni e portatori del suo amore e saremo partecipi subito della sua gioia!

sabato 8 novembre 2014

Questa è veramente casa - Riflessione sul Vangelo di domenica 9 novembre 2014

L'abbiamo detto tante volte, tutti noi, ogni giorno, fino all'ultimo istante di questa vita, cerchiamo una sola cosa: essere felici, e l'unica ricetta della felicità è l'amore. Non parlo dell'emozione che ti fa star bene per un po' perché risponde ai tuoi desideri del momento ma che svanisce come la neve al sole appena i desideri del momento cambiano. Parlo dell'amore vero, quello che costa impegno e fatica ma che scalda il cuore, l'amore che ti fa donare la vita per l'altro scoprendoci poi non una perdita ma un arricchimento. Tutti siamo capaci ad amare, è scritto nella nostra essenza (che ci caratterizza molto più che il DNA), ma spesso non sappiamo usare bene questa capacità, spesso amiamo in modo sbagliato. L'unico che ci può insegnare ad amare veramente è colui che è tutto amore: Dio!
Per imparare ad amare non basta una teoria, serve una pratica, non si impara ad amare leggendo un libro, si impara ad amare solo lasciandosi amare, scoprendo di essere amati e vedendo i segni dell'amore per noi impariamo, a nostra volta, ad amare. Quando si ama qualcuno c'è sempre un grande desiderio di stare insieme e di condividere la vita.
Anche Dio ha questo grande desiderio, ama ciascuno di noi e desidera stare sempre con noi, con ciascuno di noi.
Il popolo di Israele aveva compreso questo desiderio di Dio e aveva costruito un tempio a Gerusalemme affinché fosse un segno visibile, un luogo concreto in cui il Signore potesse abitare in mezzo al suo popolo eletto. Potremmo obbiettare che Dio è ben più grande di qualunque tempio l'uomo potrebbe mai costruirgli, ed è vero, ma il Tempio di Gerusalemme era un simbolo, il modo di rendere visibile questo desiderio di Dio, un luogo in cui ogni israelita avrebbe potuto riconoscere l'amore e la cura del Signore. L'amore ha bisogno di simboli, l'amore in quanto tale è invisibile ma lo possiamo comunicare con dei segni: un bacio, una carezza, un regalo. Nessuna di queste cose è l'amore ma tutte ne esprimono un aspetto.
Per Dio, però, un tempio di pietre non era ancora abbastanza vicino, cercava un'intimità maggiore, voleva poter abitare insieme ad ogni uomo in qualunque luogo del pianeta si trovasse, voleva essere sempre con ogni persona umana, con ciascuno dei suoi figli.
Questo grande desiderio del Padre lo ha realizzato il Figlio facendo sua la nostra umanità, unendola alla sua divinità, rendendo così la nostra natura umana capace di accogliere e ricevere Dio che viene ad abitare nel più intimo, nel punto più profondo del cuore. Gesù con la sua Incarnazione, la sua Morte e Resurrezione, ci ha resi tempio dello Spirito Santo che ha riversato nei nostri cuori il giorno del nostro Battesimo. Questo significa che Dio non è lontano, chissà dove, che non devo andare a cercarlo in luoghi reconditi, il Signore è sempre con me, non mi abbandona mai perché ha scelto di abitare nel mio cuore.
La luce, non la puoi chiudere in un barattolo, basta un minimo spiraglio e passa e illumina anche i luoghi più bui, l'amore è così, quando una persona ha scoperto di essere amata da Dio, di essere piena del suo amore, piena di Lui, non può tenerlo per sé, deve condividerlo con gli altri. Dio, infatti, vuole amarci in modo speciale e unico ma non individualistico, ci chiede di riversare questo suo amore sui nostri fratelli, di illuminare la loro vita con il suo amore. Per questo non solo Gesù ha trasformato ciascuno di noi in tempio del suo Santo Spirito ma ci ha uniti tutti a Sé, ha fatto di noi un popolo nuovo, la sua Chiesa. L'amore del Padre, che ci rende figli suoi, non solo ci lega a Lui ma ci unisce anche tra noi, fa di noi tutti un corpo unico.
Oggi celebriamo la dedicazione della Basilica del Santissimo Salvatore e dei santi Giovanni Battista ed Evangelista in Laterano, Cattedrale di Roma, Madre di tutte le chiese dell'Urbe e dell'Orbe (di Roma e di tutto il mondo). Tutta la Chiesa oggi celebra l'anniversario dell'inaugurazione (il termine liturgico è appunto "dedicazione") avvenuta nel 324, ma non è il fatto storico che ci interessa maggiormente. Impariamo, invece, a riconoscere nell'edificio il simbolo della Chiesa, nelle tante pietre che la compongono il simbolo di noi tutti che la costituiamo come pietre vive.
In questi tempi la Chiesa è spesso bersagliata da molte critiche e molti giudizi, anche tanti cristiani non la comprendono o ne capiscono poco la realtà. Penso che la causa di questa incomprensione nei confronti della Chiesa sia da trovare nell'individualismo che caratterizza la nostra società e che è anche la causa principale del male oscuro che fa soffrire molti: la solitudine.
L'abitudine a pensare ognuno per sé ci porta a chiuderci agli altri, a vedere l'intera società e le sue istituzioni come uno strumento utile per i nostri bisogni e tutto questo non fa che accrescere la sensazione di essere soli.
La Chiesa ci dice esattamente il contrario! Ci dice che non siamo mai soli, che Dio ha scelto di abitare con noi, di unirci tra noi. Ci dice di non avere paura, di aprirci ai fratelli, di riconoscerli come tali, non come altri individui che cercano solo di sfruttarci ma come coloro che mi sostengono nel momento della difficoltà, che vogliono condividere con me le gioie e i dolori perché sanno, come so io, che siamo tutti amati dal Padre, che Cristo ha dato la sua vita per ciascuno di noi, che lo Spirito Santo dona vita ai nostri cuori. La Chiesa è la famiglia, è il porto sicuro, è il luogo dove posso sentirmi veramente a casa perché sono amato per quello che sono, con i miei difetti e i miei pregi. È  lì che scopro di essere perdonato anche quando l'ho fatta davvero grossa, dove so che troverò sempre qualcuno pronto a darmi una mano e, se proprio non potesse aiutarmi, mi starà comunque vicino e mi darà conforto con il suo affetto. La Chiesa è l'unico luogo dove la solitudine è stata sconfitta.
Questa potrebbe sembrare una descrizione idealistica, lontana dalla realtà. No, questo è semplicemente il desiderio del Signore Gesù quando ha fondato la sua Chiesa, ora sta a noi, a ciascuno di noi, realizzare questo grande sogno, impegnarci a costruire questo grande e meraviglioso progetto di Dio che continuerà ad essere luogo dell'incontro d'amore tra il Creatore e la sua creatura.

sabato 25 ottobre 2014

Il ritmo dell'amore - Riflessione sul Vangelo di domenica 26 ottobre 2014

C'è una domanda che tutti, ma davvero tutti, ci poniamo ogni giorno anche se non in maniera esplicita, una domanda che fa da sfondo a tutte le nostre scelte e decisioni: come faccio a vivere una vita felice? 
Innanzi tutto dobbiamo capire chi può darmi la felicità che cerco. Se guardiamo con un po' di obbiettività alla nostra vita ci accorgiamo che le cose di questo mondo, per quanto belle e durature, non riescono a darci una felicità piena e stabile. Spesso quando abbiamo raggiunto la meta che ci eravamo prefissi ci accorgiamo che la felicità vera non è lì e ripartiamo alla ricerca di qualcos'altro che sembra promettere meglio. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci insegni la via verso la felicità vera e autentica.
È questa domanda fondamentale nella vita di ciascuna persona umana che è nascosta dietro la domanda che il dottore della Legge pone a Gesù nel Vangelo di questa domenica "Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?"
Prima di guardare alla risposta di Gesù è bene fare una precisazione quanto ai termini usati.
Viviamo in una società che è molto allergica alle norme, alle regole, alle leggi, pensiamo che sia giusto che ognuno faccia quello che vuole e che si sente. Se però consideriamo bene la nostra vita ci accorgiamo che per fare le cose importanti abbiamo bisogno di darci o di seguire delle regole. Facciamo qualche esempio. Nessuno può pensare di laurearsi studiando solo quando gli va, al contrario dovrà darsi una norma, una regola di studio, allo stesso modo nessun atleta potrà mai vincere una medaglia allenandosi solo se ne ha voglia, dovrà invece allenarsi regolarmente, mantenere un'alimentazione molto precisa e accurata, dovrà riposarsi un giusto numero di ore e dovrà imparare a rinunciare a stare alzato fino a tardi per fare baldoria con gli amici. Anche nella vita quotidiana seguiamo delle regole che ci permettono di dare un ritmo salutare alla nostra vita: le medicine le dobbiamo prendere nei tempi e nei modi indicati dal medico perché abbiano effetto, per cucinare una torta dobbiamo seguire bene la ricetta, per giocare una partita di calcio dobbiamo seguire le regole, altrimenti non ci si diverte veramente. La nostra vita ha bisogno di un ritmo stabile, scandito da norme che non sono pensate per limitarci ma per farci vivere bene. 
Quando, dunque, il dottore della Legge chiede a Gesù di indicargli il "grande comandamento" gli sta chiedendo quale sia, secondo Lui, la regola fondamentale, quella che dà poi il ritmo a tutta la vita, quella che poi dà forma a tutte le altre. 
La risposta di Gesù ci potrebbe sorprendere (se non fosse che il brano è ormai così famoso che non ci stupisce più), non è infatti una regola gravosa del tipo "devi lavorare dieci ore al giorno" ma molto più semplicemente "ama Dio!"
Ma che significa amare Dio? Amare significa volere il bene della persona amata, ciò che la rende felice. Ciò che rende felice Dio è la nostra felicità e la nostra felicità è nella sua volontà quindi amare Dio significa volere quello che Lui vuole. Detto così sembra un po' un pensiero articolato e contorto, in realtà è più semplice di quanto non appaia. Amare Dio significa decidere di fidarsi di Lui sempre, in ogni situazione, anche quando quello che accade non lo comprendiamo, quando il senso di ciò che abbiamo davanti ci sfugge. Significa desiderare di compiere la sua volontà e restare in ascolto per capirla e attuarla, se davvero ci abbandoniamo a Lui sarà molto più semplice di quanto non immaginiamo.
Amare, però, non è poi tanto facile, se guardiamo alle nostre relazioni quotidiane notiamo subito come non sempre amiamo i nostri cari come vorremmo, spesso ci sfoghiamo con loro o li trattiamo male. Come allora pensare di poter amare Dio se ci è così difficile amare chi abbiamo accanto?
Se dovessimo amarlo con le sole nostre forze sapremmo in partenza di essere di fronte ad un'impresa impossibile. Dobbiamo però sempre ricordare che l'iniziativa è sempre sua, è Dio che ci ha amati per primo, è Lui a colmarci del suo amore che riempie il nostro cuore e trabocca rendendoci capaci di amare Lui innanzi tutto e poi anche coloro che Egli ama: noi stessi e i nostri fratelli.
Il "secondo comandamento simile al primo" che Gesù cita al dottore della legge non è un tentativo di mettere insieme egoismo e filantropismo ma è l'indicazione di come l'amore di Dio di cui il nostro cuore è colmo si riversa poi nella nostra quotidianità. 
Quando mi scopro immensamente amato da Dio ricambio questo amore amando Lui e anche amando me stesso perché amato da Lui. Questo amore per me stesso non mi porterà più a cercare compensazioni al vuoto che ho nel cuore, perché quel vuoto è ora colmato dall'amore di Dio, non sarò più tentato di pensare al mio benessere sfruttando gli altri a mio vantaggio. Nello stesso tempo imparerò ad amare l'altro che ho davanti perché amato da Dio, perché nel fratello vedrò lo stesso amore che ricolma la mia vita. 
Precisiamo tutto questo non è cosa da preti e suore! Questo comandamento dell'amore è per ogni cristiano e per ogni uomo, è questo comandamento a dare il ritmo giusto alla nostra vita, a dare forma alle nostre azioni, alle nostre parole, alle nostre scelte.
Lasciamoci, quindi, riempire dell'amore di Dio e lasciamoci coinvolgere nel ritmo del suo amore e la nostra vita sarà nella felicità vera, diventerà una festa senza fine!















sabato 18 ottobre 2014

A ciascuno il suo - Riflessione sul Vangelo di domenica 19 ottobre 2014

Questa settimana inizio con un piccolo sfogo personale, penso e spero che in molti concorderete con me. 
Sono piuttosto stanco e stufo di vivere in un mondo di continue divisioni, separazioni, opposizioni, che continua a farci mettere gli uni contro gli altri. Un mondo in cui ciascuno pensa per se stesso e se ci si allea è per riuscire a eliminare un nemico comune, poi si torna a farsi la guerra. Un mondo in cui del bene comune non importa a nessuno perché siamo troppo impegnati a cercare ognuno il proprio comodo. Un mondo in cui l'unica cosa importante è salvaguardare i propri capricci, facendoli passare per diritti, infischiandosene se poi ci vanno di mezzo i più deboli e i più poveri. Un mondo in cui la Verità, quella vera, non ha diritto di cittadinanza perché è stata esiliata dalle opinioni dei singoli imposte a tutti spesso con l'inganno e il sotterfugio.
È il mondo dei farisei di duemila anni fa e di oggi, è il mondo degli ipocriti che riconoscono di essere nella falsità e per questo cercano di far fuori chi dice la verità con trucchi e inganni.
Il Vangelo di questa domenica ci racconta del trabocchetto che i farisei di allora hanno teso a Gesù cercando di metterlo con le spalle al muro, cercando di farlo cadere nella loro trappola: è lecito pagare il tributo a Cesare? Ovvero: a chi sei fedele a Roma o al Popolo di Israele?
So bene che di solito questa pagina di Vangelo è utilizzata per ribadire che il buon cristiano deve pagare le tasse ma di per sé questa è una semplicissima questione di giustizia: abiti in uno Stato, usufruisci dei servizi che offre quindi devi pagare quello di cui usufruisci. Per altro non è questione di fede: anche il cittadino ateo o di altra religione è tenuto a pagare le tasse, sempre per una questione di giustizia e di civiltà. Per essere ancora più esplicito: chi non paga le tasse semplicemente è incivile!
Con la frase diventata celeberrima "Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" Gesù non vuole dirci semplicemente di fare i bravi cittadini, di comportarci bene e di pagare le tasse senza lamentarci troppo. Sarebbe una sorta di invito alla rassegnazione davanti a un mondo che può andare solo in una direzione, ma questo non è lo stile di Gesù.
Ancora una volta il Signore ci invita a convertirci, a cambiare cioè modo di pensare, a guardare la realtà in cui viviamo in una prospettiva diversa. Smettiamola di cercare scappatoie e accomodamenti, smettiamola di cercare di tenere insieme i nostri interessi materiali e la verità di Dio, impariamo a distinguere e a capire a chi apparteniamo.
Gesù, infatti, ribalta la visuale, non parla di pagare ma di rendere, restituire al proprietario ciò che gli appartiene, ne fa una questione di appartenenza. Il denaro che gli viene mostrato porta l'immagine e il nome di Cesare quindi appartiene a Cesare e a lui deve essere restituito. Impariamo allora a capire quali cose della nostra vita portano il volto e il nome del mondo e restituiamole al mondo, liberiamocene! Invidia, arroganza, arrivismo, avidità, rancore, falsità, ingiustizia, sono tutte cose che portano impresso il volto del mondo, che gli appartengono e se non vogliamo appartenergli anche noi dobbiamo saperne fare a meno, dobbiamo rendere al mondo quello che è suo.
Ma a Dio cosa appartiene? Dato che il denaro appartiene a Cesare perché ne porta il nome e il volto, a Dio appartiene ciò che ne porta il volto e il nome: noi, la nostra vita! Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza, portiamo in noi l'immagine di Dio, quindi gli apparteniamo e a Lui dobbiamo tornare. Rendiamo a Dio quello che è suo, la nostra vita! 
Ma come si fa? Impariamo a vivere come vive Lui, iniziamo ad amare, sempre, comunque, in ogni circostanza, prendendoci cura di chi soffre, facendo giustizia, faticando nella carità, dicendo la verità, anche quando questa è rifiutata o derisa. 
Abbandoniamo la logica del profitto personale, che poi è quella che causa le guerre e le crisi economiche, e facciamo nostra la logica del bene comune, iniziamo a capire che se non stiamo bene tutti non starà mai bene nessuno! Ma iniziamo dalle nostre case, dalle nostre famiglie, dai luoghi di lavoro e di studio. Una famiglia in cui uno sta bene e gli altri stanno male non è una famiglia felice, una classe in cui si litiga è una classe in cui si studia male e ci si prepara male alla vita, un ufficio in cui ci sono meschinità e invidie è un ufficio in cui è lo stress a farla da padrone e a fiaccare le energie. 
Io penso che ci siamo un po' tutti rassegnati al fatto che il mondo meglio di così non possa andare e che, tutto sommato, ci conviene accontentarci, cercando di vivere il meglio possibile, lasciando che gli altri facciano un po' come vogliono, in cui ci sono "nuove verità" a cui uniformarci perché è più semplice.
Gesù non ci chiede di fare guerre o battaglie, non ci chiede di osteggiare ciò che non è secondo la verità e il vero bene, ci chiede di renderlo al mittente, di non farlo nostro e, invece, di affermare la bellezza della vita secondo il disegno di Dio, di annunciare che si può vivere una vita diversa, piena e autentica. Il Signore ci chiede di essere testimoni di gioia e di speranza, di amore e di pace, non come vaghe emozioni che passano come un colpo di vento ma come scelte vere, concrete, operative. Ci chiede di dimostrare con la nostra vita che si può smettere di vivere secondo il mondo e iniziare a vivere secondo Dio, di cui portiamo l'immagine impressa in noi, e che così troviamo la nostra gioia. 

sabato 11 ottobre 2014

Invitati a nozze eterne - Riflessione sul Vangelo di domenica 12 ottobre 2014

Se abitate a Roma, ma anche se siete solo di passaggio, e vi trovate un sabato pomeriggio a passeggiare sull'Aventino vi capita sicuramente di incontrare molti invitati a nozze. Li potete riconoscere subito da due particolari l'abito elegante e il sorriso sul volto che quando si partecipa ad un matrimonio sono d'obbligo.
A tutti, penso, è capitato di partecipare al matrimonio di un caro amico o di un parente a cui si è particolarmente affezionati, è un momento importante e di grande gioia per tutti, per gli sposi e per tutti coloro che vogliono loro bene. Una occasione così speciale deve quindi essere sottolineata e valorizzata con una grande festa, un sontuoso banchetto (e noi italiani siamo famosi in tutto il mondo per i nostri pranzi di nozze!), abiti eleganti e tanta allegria. Pensiamo anche ai giorni che precedono la festa di nozze, quanta trepidazione, quanta attesa, già si pregusta la felicità della giornata e subito il cuore si riempie di gioia.
Il Signore Gesù, questa domenica, per spiegarci cosa sia il Regno di Dio lo paragona proprio ad un banchetto di nozze a cui tutti siamo invitati.
L'invito a questa festa, la partecipazione di nozze, è la Parola di Dio attraverso cui il Padre ci invita ad entrare nel suo Regno, impariamo, allora, ad ascoltarla, ad accoglierla nel cuore, a tenerla a mente, proprio come teniamo nel cuore l'annuncio di matrimonio di una persona cara.
Forse mi sembra strano che il Padre abbia invitato anche me che non sempre gli sono stato proprio fedele, non sempre mi sono comportato bene, eppure la festa è per tutti, cattivi e buoni, tutti siamo invitati ad entrare perché Dio non fa preferenze, non ha la lista V.I.P. all'ingresso. Non siamo abituati perché noi invece facciamo preferenze e portiamo rancore per cui se una persona non ci piace gran ché o ci ha fatto qualche sgarbo non la invitiamo alle nostre feste. Dio invece ci ama così tanto che ci vuole in casa sua anche se non sempre siamo stati amabili con Lui perché il suo amore per noi è immensamente più grande del nostro peccato.
Quando si partecipa ad un matrimonio anche il nostro aspetto comunica la gioia del nostro cuore, non ci si va sporchi e vestiti di stracci malconci, ci si lava e si indossa l'abito più bello ed elegante che si ha. Iniziamo allora a svestirci dell'abito logoro e sudicio che abbiamo addosso: le nostre abitudini cattive, i nostri peccati, i nostri egoismi, le nostre meschinerie. Abbandoniamo le abitudini che ci fanno vivere secondo il nostro esclusivo guadagno, il nostro guardare solo a noi stessi, i rancori verso amici e parenti, il nostro rifiuto a perdonare... Sono tutte cose che ci rendono sporchi e brutti, ripuliamoci, meglio lasciamoci ripulire dal Signore con il Sacramento della Riconciliazione, permettiamogli di toglierci di dosso le abitudini al male che, come un vestito brutto, vecchio e sporco, ci rendono impresentabili.
Il giorno del nostro Battesimo ci è stata donata una veste bianca e il sacerdote consegnandocela ci ha detto "...sei divenuto nuova creatura e ti sei rivestito di Cristo...". Gesù stesso si è fatto per noi abito ed è questo l'abito nuziale di cui parla la parabola di questa domenica, dobbiamo lasciarci rivestire di Lui, le sue abitudini devono essere le nostre abitudini: l'amore per i fratelli, il dono di sé, la ricerca della giustizia, l'affermazione della verità.
Nella parabola sembra però mancare un elemento importante per un matrimonio: il Re è Dio Padre che organizza una festa di nozze per il proprio Figlio, il Signore Gesù... ma chi è la sposa?
La Sposa di Cristo è la sua Chiesa! Dunque siamo tutti noi! La festa di nozze che il Padre organizza e prepara con tanta attenzione è dunque anche per noi, siamo gli invitati e anche gli ospiti d'onore.
Questo concetto è un po' più difficile da capire perché l'immagine che abbiamo del matrimonio è sempre tra un uomo e una donna, proviamo però a guardare solo all'amore, vero protagonista di ogni matrimonio. L'amore che lega due sposi è un amore di dono totale di sé all'altro, è smettere di pensare da soli per iniziare a pensare insieme, è smettere di cercare il proprio interesse per cercare il bene dell'altro. Il Signore ci chiama a questo, a vivere con Lui questo amore sponsale, questo mettere Lui al centro della nostra vita, donandoci totalmente a Lui. Gesù l'ha fatto per ciascuno di noi, ci ha amato fino a dare la sua vita per noi e continua ad amarci donandoci la sua Vita eterna.
Camminiamo, allora, con gioia verso questo banchetto nuziale che è anche il nostro, liberati dalla sporcizia del nostro peccato e rivestiti dell'abito d'amore e di luce che il Signore ci dona, ci ha invitato un Padre che ci ama di amore tenerissimo, uno Sposo che ha dato la sua vita per noi nell'Amore, che è lo Spirito Santo, che rende anche il nostro fragile cuore capace di amare di amore eterno.












sabato 4 ottobre 2014

Il giusto valore di quello che abbiamo - Riflessione sul Vangelo di domenica 5 ottobre 2014

"C'è più gioia nel donare che nel ricevere" dice un proverbio e, a meno di non essere egocentristi irrecuperabili, è vero. È bello fare un regalo speciale a una persona che amiamo, non di quei regali costosi che facciamo più per far bella figura che per fa piacere a chi riceve, quei regali che facciamo col cuore, che magari non valgono gran che o che facciamo con le nostre mani, ma regali pensati e personalizzati. Quanta delusione, però, se quel dono non viene apprezzato, se viene accantonato in fretta e poi rapidamente dimenticato. Ci restiamo male e con ragione, non è per il valore materiale del regalo stesso ma perché vediamo ferito il nostro amore.
Penso che a tutti sia capitata una situazione del genere e sappiamo bene come ci si sente, tenendo bene in mente tutto ciò: quando è stata l'ultima volta che abbiamo ringraziato il Signore per quanto ci ha donato? Non mi riferisco solo ai doni più grandi ma a tutto quello che abbiamo, quello che ci circonda! Per esempio: quando abbiamo ringraziato Dio per l'acqua?
Il mondo in cui viviamo ci porta a correre sempre e a dare per scontate tante cose, pensiamo che ci sia tutto dovuto, che sia normale che il mondo attorno a noi esista, che possiamo sfruttarlo come ci pare, a nostro uso e consumo...
Ma non ci stiamo perdendo qualcosa? Ma davvero abbiamo fatto qualcosa di così grande per meritare questa meraviglia che è l'universo in cui abitiamo, così bello e perfetto? Non so voi, io no!
Possiamo allora iniziare a guardarci intorno con uno sguardo diverso, possiamo iniziare a non dare nulla per scontato, possiamo iniziare a riconoscere in tutto quello che abbiamo un dono speciale di Dio, per nulla scontato e sicuramente non meritato.
Gli scienziati ci dicono che la vita si è sviluppata sulla Terra perché è un ambiente adatto: è alla giusta distanza dal sole, è composta di determinati elementi, ha un'atmosfera composta di gas specifici, sugli altri pianeti non c'è vita perché mancano queste condizioni.
Ma non potrebbe essere letta anche al contrario? Non potrebbe essere che la Terra sia così proprio perché potesse accogliere la vita?
Se proviamo a smettere di pensare alla vita come al frutto del caso e iniziamo a pensare che sia il risultato di un progetto, un progetto che come unico scopo ha l'amore per l'uomo forse cambia la nostra prospettiva, il nostro sguardo sul mondo intero.
Dio ci ama, si prende cura di noi con una grande tenerezza e attenzione, predispone tutto ciò che ci è necessario, ci ha preparato una vigna e ora ce la affida affinché ci possiamo lavorare diventando così suoi collaboratori. Apriamo lo sguardo e iniziamo a riconoscere in ciò che abbiamo un dono di Dio: la nostra famiglia, gli amici, la Chiesa, la nostra Nazione, la città in cui viviamo, le persone che incontriamo, il nostro lavoro, le nostre occupazioni... tutto è vigna di Dio perché non abbiamo fatto nulla per meritarcelo, tutto è un dono speciale.
Ma i doni speciali chiedono di essere custoditi, curati, e utilizzati secondo il loro fine.
La tentazione di ignorare chi sia l'autore di tutto questo, di pensare che tutto quello che abbiamo ci sia dovuto, sia scontato, ci appartenga e ne possiamo disporre a nostro uso e consumo è grande. Questa tentazione però ci porta a sfruttare tutto senza ottenerne un frutto buono ma solo acini acerbi, inutili portandoci ad autocondannarci a una vita triste, angosciata e vuota.
Possiamo, invece, iniziare a considerare tutto ciò che vedo nella mia vita come un dono di Dio che mi chiama a una responsabilità, ad una risposta vera e impegnata.
Iniziamo con il lodare e ringraziare Dio per quanto ci ha donato, tutti i giorni, come prima cosa della giornata, appena apriamo gli occhi al mattino.
Continuiamo il nostro impegno prendendoci cura di ciò che abbiamo e custodendolo come si custodisce il dono prezioso di una persona cara: la nostra famiglia, i nostri amici, il lavoro, l'ambiente... impariamo a custodire!
Lavoriamo, poi, non per il nostro esclusivo tornaconto, cerchiamo il bene di tutti, l'armonia in famiglia, a scuola o al lavoro, nelle amicizie, con tutto il creato.
Se sapremo vivere così la nostra vita inizierà a produrre frutti buoni, a darci gioia e pace, nella condivisione e nell'impegno per il bene comune troveremo ciò che da senso e pienezza alla nostra vita.
Dio ha fatto tanto per ciascuno di noi, impariamo a riconoscerlo e a dargli il giusto valore e la nostra vita sarà nella sua gioia eterna.

sabato 27 settembre 2014

Libertà e obbedienza - Riflessione sul Vangelo di domenica 28 settembre 2014

Una delle occupazioni più impegnative nella vita di un prete in parrocchia è il contatto e l'ascolto delle persone che vengono a chiedere qualcosa, sia un certificato di battesimo piuttosto che l'iscrizione dei figli a catechismo o la celebrazione di un anniversario di nozze. È un'occasione preziosa per conoscere tante persone ma anche per farsi un'idea della società in cui viviamo. Quanti svolgono una professione "a diretto contatto col pubblico" penso condivideranno con me una preoccupazione che si fa più pressante con l'andare del tempo: assistiamo ad una deformazione dell'idea di libertà sempre più intesa come il diritto di fare e avere tutto quello che voglio quando lo voglio e alle condizioni che detto io. Libertà è la parola d'ordine dei nostri tempi, in suo nome vengono combattute campagne ideologiche sempre più aggressive e violente, si pretende di imporre la propria libertà senza rendersi conto che così si annulla la libertà altrui. I mezzi di comunicazione ci danno continua conferma di questa distorsione ideologica che ci rende tutti ciechi schiavi dei nostri capricci e dei nostri istinti: quando ci troviamo davanti all'impossibilità di soddisfare i nostri desideri del momento diamo in escandescenza, ci arrabbiamo e, sempre più frequentemente, compiamo gesti esagerati e gravi.
Il Signore Gesù che ci vuole veramente liberi, non schiavi delle nostre passioni, ci propone una via diversa che passa per l'obbedienza.
Nella nostra società "obbedienza" è diventata quasi una parolaccia, la si usa ancora con i bambini (ma anche con loro sempre meno e se ne vedono gli effetti) ma a noi adulti solo l'idea di dover obbedire a qualcosa o a qualcuno ci fa venire l'orticaria.
Questa ostilità all'idea di obbedienza è frutto di una distorsione del concetto stesso: pensiamo che obbedire significhi fare il volere di un altro ad esclusivo suo vantaggio. In fondo siamo tutti costretti ad obbedire a qualcun altro il quale ci fa fare le cose che non vuole fare lui, scarica, cioè, su di noi ciò che a lui non piace. L'idea che abbiamo di obbedienza è la relazione padrone-schiavo.
Il paradosso è che questa obbedienza che tanto ci disturba è quella che viviamo ogni giorno nei confronti dei nostri istinti, delle nostre passioni, dei nostri desideri.
Quante volte ci troviamo a fare qualcosa che sappiamo farci male e poi diciamo "è più forte di me"? E cos'è questa se non un'obbedienza schiavistica alle nostre debolezze?
L'obbedienza che Gesù ci insegna mostrandocela è ben diversa, è obbedienza vera e insieme libertà vera perché è obbedienza alla volontà del Padre.
Per capirla dobbiamo partire da un assunto che di per sé è più che evidente ma che non sempre abbiamo ben chiaro: Dio non ha bisogno delle nostre buone azioni, né ha bisogno che facciamo le cose al suo posto. Ha creato il mondo e la scienza ci sta aiutando a capire con quale meravigliosa precisione l'ha fatto, non ha certo bisogno di me e dei miei lavori arrangiati e imprecisi. Se dunque Dio mi chiede di obbedire alla sua volontà e non lo fa per Se stesso, lo fa per me, per il mio bene. L'unico fine della volontà di Dio, infatti, è il mio bene. Quando decido di obbedire a Dio non sto rinunciando alla mia libertà, anzi la sto usando nel modo più giusto: sto scegliendo ciò che mi fa bene anche se a prima vista non mi piace.
Il verbo obbedire significa ascoltare con attenzione, dunque se inizio ad ascoltare con attenzione il Signore che mi parla, imparo a scoprire che veramente Dio vuole solo il mio bene, che mi vuole salvare dalle mie schiavitù, dal male che mi tiene veramente prigioniero.
Gesù dice ai farisei che pubblicani e prostitute passeranno avanti nel Regno dei Cieli, sta forse suggerendo ai farisei di iniziare a commettere peccati gravi? Evidentemente no! Perché, allora, passeranno avanti loro? Perché chi è nel peccato grave, prima o poi, comprende di trovarsi imprigionato, di essere schiavo dei propri istinti più bassi, dell'avidità, della lussuria, dell'invidia e se in quella situazione ascolta l'annuncio di salvezza di Gesù ecco che sceglie e decide di abbandonare le schiavitù, di smettere di obbedire al male per iniziare ad obbedire a Dio che mi indica il mio bene.
Perché i farisei (e spesso noi con loro) non lo comprendono? Perché pensano di essere già giusti perché non hanno commesso grandi peccati e continuano a vivere una vita che è in ascolto di Dio solo quando è proprio necessario, che è obbedienza al proprio concetto di giustizia e di correttezza ma non alla Parola di Dio.
Gesù non è un insegnante di teoria, uno che ti spiega il concetto e poi lascia a te trovare il modo di applicarlo. Gesù ci mostra con la sua vita cosa sia l'obbedienza al Padre e questa obbedienza è la Croce "umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce" (Fil 2,8). Vale qui lo stesso principio già detto: il Signore non aveva bisogno di morire in croce, non è servito a Lui, serviva a noi, eravamo noi quelli che dovevano essere liberati dalla disobbedienza del peccato, lo ha fatto con un'obbedienza piena, totale, fino alla morte e alla morte più infame.
Se lo ha fatto Gesù possiamo farlo anche noi, possiamo anche noi iniziare ad ascoltare con attenzione il Padre che ci indica la via della verità della nostra vita, possiamo cominciare anche noi a disobbedire al male, al peccato, alle nostre debolezze e iniziare ad obbedire a Dio che ci conduce alla pienezza di gioia e di vita eterna.













sabato 20 settembre 2014

Collaboratori nell'edificazione del Regno - Riflessione sul Vangelo di domenica 21 settembre 2014

Mi è capitato più volte di trascorrere dei giorni di ritiro spirituale in una struttura poco fuori Roma, su una collina e la sera spesso andavo nella parte più alta e guardavo la città davanti a me. Quante luci, quante case, quanti palazzi, quante automobili... dall'alto Roma sembra un grande formicaio di gente indaffarata. Quanti impegni, quante attività, quanti lavori, compiamo ogni giorno, a volte sembra che non abbiamo il tempo di fare tutto, altre ci sembra di fare tanto ma non concludere nulla.
Arriviamo alla sera stanchi e abbiamo sicuramente fatto tante cose ma ci siamo mai chiesti perché le facciamo?
In altre parole: per chi stiamo lavorando?
Consideriamo tutta la nostra vita, tutti i nostri impegni, tutte le nostre attività, non solo quella lavorativa, per chi facciamo tutto questo?
A queste domande sembra possano esserci migliaia di risposte, a stringere però le possibilità sono solo due: io o Dio, in altre parole il mio benessere o la gloria di Dio
Quando cerco il mio benessere, come gli operai della parabola, seguo la logica del guadagno: Più lavoro e più devo guadagnare. Questo principio è sicuramente valido nel campo del lavoro retribuito ma non funziona nel resto della vita. Non lo possiamo applicare alla cura per i figli, per esempio, altrimenti ognuno di noi avrebbe con i propri genitori un debito economico spaventoso! Non possiamo nemmeno applicarlo all'attenzione per gli amici: se un'amicizia è regolata dall'interesse personale non è più un'amicizia. Anche la beneficenza può essere fatta alla ricerca del proprio benessere quando cerco la riconoscenza e l'ammirazione degli altri.
A ben guardare però ciò che facciamo nella ricerca del nostro benessere non è mai qualcosa che ci riempie veramente, ci soddisfa poco, non ci fa sentire utili, non dà senso alla nostra vita.
Il Signore Gesù ci propone una visone totalmente diversa della nostra vita, ci viene incontro e ci invita a lavorare nella sua vigna, per il suo Regno. Ci propone di cambiare mentalità e abbandonare la logica del guadagno e aprirci alla logica della Provvidenza della fiducia in Lui che non ci fa mancare nulla di ciò di cui abbiamo bisogno, che si prende cura di ciascuno di noi.
Lavorare per il Regno di Dio non significa abbandonare il proprio posto di lavoro e partire missionari per terre lontane (per qualcuno magari è così ma non tutti di certo!), non significa dover stravolgere la propria vita ma abbandonare i propri schemi mentali e lasciarsi guidare da Dio che ci chiama.
Non importa in quale ora della vita sono, non importa se sono giovane o adulto o anziano, il Signore mi chiama oggi a servizio della sua vigna che è la Chiesa. Il Signore sceglie me! Con tutte le mie debolezze, con tutte le mie fragilità, con tutte le mie mancanze!
Già questo dovrebbe farci saltare di gioia: Dio si fida così tanto di me da chiedermi di collaborare con Lui nell'edificazione del suo Regno... e se ha fiducia è perché mi ama davvero!
Ci sono persone che farebbero i salti mortali per poter lavorare al fianco di personaggi importanti nel loro campo professionale, persone che sono disposte a lavorare senza compenso... e noi? Dio ci chiama a lavorare con Lui... e ci pensiamo anche?
Probabilmente ci troviamo tentati di chiedere cosa ci offre, se è vantaggioso quello che ci propone...
Lo è, vi assicuro! Dio non ci fa mai mancare nulla di ciò di cui abbiamo bisogno, fin nel minimo dettaglio, colma la nostra vita della sua pace e della sua gioia, quelle vere, quelle che nessun guadagno, nessun successo terreno potranno mai darci.
Oggi il Signore viene nella tua vita e ti dice: vieni a lavorare con me! A noi non resta che rispondere
come Maria: Eccomi!

venerdì 12 settembre 2014

Non c'è amore più grande - Riflessione sul Vangelo di domenica 14 settembre 2014

Se dovessi paragonare la nostra società ad un'età della vita non avrei proprio alcun dubbio: l'adolescenza! Quell'età in cui pensi di sapere tutto, di saper fare tutto, di bastare a te stesso! A che ti servono gli adulti? A che ti serve studiare? A che ti servono le regole? Tu sai tutto, tu sei onnipotente! Ci siamo passati tutti, chi più, chi meno, ma tutti quanti abbiamo pensato di bastare a noi stessi.
Così è la nostra società, orgogliosa delle sue scoperte scientifiche, delle sue invenzioni tecnologiche, delle sue idee progressiste, avanza sicura di sé, troppo sicura di sé, convinta di bastare a se stessa. Il problema è che anche noi ci lasciamo convincere, pensiamo che nella vita ognuno debba essere libero di fare quello che gli passa per la testa perché cerchiamo di convincerci che le nostre azioni non hanno conseguenze o effetti collaterali. Certo sarebbe bello poter fare quel che mi va senza dover poi subire le conseguenze delle mie decisioni ma, siamo obbiettivi, è un comportamento da adolescenti!
Il progresso scientifico e le aziende che ci guadagnano sopra ci stanno spingendo a crederci sempre di più onnipotenti, di saper fare tutto e di poter fare tutto. Bene inteso la ricerca scientifica è cosa buona così come il progresso tecnologico, purché non ci montino la testa e non ci facciano perdere di vista quello che siamo: uomini, fragili, deboli e, soprattutto, mortali. C'è infatti una cosa che nessuno scienziato è mai stato capace di fare ridare la vita a ciò che è morto. La morte è, a bene pensarci, la conseguenza del nostro delirio di onnipotenza: ci pensiamo così indipendenti, così autosufficienti, da poter fare a meno di Dio, di poter fare a meno dell'Autore della vita, ma senza di Lui noi siamo solo fragili mortali in cammino verso la tomba.
La grande paura di ogni uomo, infatti, è proprio la morte e dietro ogni nostra paura è, in realtà, celata la paura della morte perché la morte è l'unica cosa che non siamo capaci di evitare, di risolvere.
Dunque dobbiamo rassegnarci a morire? Dobbiamo accettare il fatto che la nostra esistenza si infrangerà inesorabilmente contro questo muro invalicabile?
No, Dio non ci ha lasciato soli! Dio non ci lascia in preda alla morte, sa che da soli non possiamo sfuggirle, che da soli non possiamo sconfiggerla e sceglie di compiere l'inaudito: si fa Lui fragile, debole, mortale, si fa Lui uno di noi, prende Lui su di Sé la nostra morte per poterla vincere, per sconfiggerla per noi, sceglie di morire al posto nostro e nel modo più atroce.
Il Signore Gesù ha scelto di rinunciare alla sua eternità, alla sua immortalità, alla sua onnipotenza, per prendere su di Sé la conseguenza del nostro peccato, della nostra ribellione a Dio, del nostro delirio di onnipotenza, perché Lui solo poteva sconfiggere la morte perché Lui solo sa donare vita a ciò che è morto, con la sua morte da vita alla nostra morte, la sconfigge, la annulla.
Ma era davvero necessario? Ma non poteva salvarci con una sola parola? Sì, certamente, ma che fine avrebbe fatto la nostra libertà? Che fine avrebbe fatto la nostra possibilità di amare?
Gesù sceglie di svuotarsi di se stesso per farsi come noi e offrirci la salvezza, senza imporcela.
Dunque non ci impone la vita eterna ma per accoglierla ci chiede un atto di libertà, ci chiede di fidarci di Lui, di fidarci più di Lui che delle nostre paure -e noi ci fidiamo tanto delle nostre paure, infatti ci fanno fare un sacco di cose che altrimenti non avremmo mai fatto- ci chiede di guardare alla Croce, di credere in Lui morto, perché solo se crediamo alla sua morte possiamo credere alla sua resurrezione e così diventare partecipi della sua vita eterna.
Il Signore ci chiede di alzare lo sguardo verso di Lui crocifisso, di non aver paura di guardare in faccia la morte in Lui morto per noi nella certezza che la morte non può più farci paura perché Gesù l'ha vinta per noi, l'ha annientata!
Alziamo allora lo sguardo al Crocifisso, riconosciamo nella Santa Croce lo strumento con cui il Signore Gesù ha scelto di dare la sua vita per amore di ciascuno di noi. Se ad un certo punto della mia vita dovessi trovarmi a dubitare dell'amore di Dio o dovessi aver paura della morte, una paura che mi porta a fare cose sconsiderate, basterà alzare lo sguardo verso il Crocifisso e dire "Gesù, Tu sei morto per me, per donarmi la tua vita eterna, sei Tu il Signore della mia vita!"
Non aspettiamo però i momenti difficili, non aspettiamo di essere disperati, impariamo da subito a contemplare l'amore del Signore per ciascuno di noi nella sua morte in Croce, iniziamo da subito a guardare al Crocifisso con uno sguardo diverso, non dobbiamo aver paura della morte, andiamo oltre, contempliamo l'Amore, l'Amore che ha portato Dio a farsi come noi per fare noi come Lui.

sabato 6 settembre 2014

Non individui ma fratelli - Riflessione sul Vangelo di domenica 7 settembre 2014

"L'uomo è un animale sociale" sentenziava duemila e trecento anni fa Aristotele, e aveva ragione!
Abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, abbiamo bisogno di vivere in società, di contribuire gli uni alla vita degli altri, anche i più scontrosi, riservati e misantropi non possono pensare di vivere una vita nella totale solitudine. 
La nostra società ha tanti difetti, tanti problemi ed errori, i notiziari ci confermano quotidianamente che ci sono molte sofferenze, molte difficoltà, che tante persone invece di contribuire alla vita altrui si impegnano a distruggerla o semplicemente la ignorano.
L'indifferenza è il vero male della nostra società: siamo indifferenti a quello che accade a chi ci sta accanto, non ci preoccupiamo di come stia il vicino di casa, forse non ne conosciamo nemmeno il nome, non ci interessa se il nostro collega sta affrontando un momento di difficoltà o di dolore. Tutti, chi più chi meno, pensiamo a noi stessi, a risolverci i nostri problemi, a provvedere alle nostre necessità, qualche volta facciamo un po' di beneficenza perché comunque abbiamo nel cuore qualcosa che ci dice che non possiamo proprio ignorare completamente i bisogni dei più poveri ma, in fondo, è più per pacificarci la coscienza che per vero amore verso il fratello indigente. 
Vivendo tutti in questa società ci troviamo inevitabilmente contagiati da questo individualismo che, piano piano, ci sta portando a vivere in questo modo anche la vita di fede. Molte persone partecipano alla Messa domenicale un po' come se partecipassero ad un concerto o una conferenza: con molta attenzione a ciò che viene detto dal sacerdote ma piuttosto indifferenti a chi è seduto accanto nello stesso banco. Proviamo a ripensare all'ultima volta che siamo stati a Messa: conoscevamo le persone che erano sedute accanto a noi o nel banco davanti o in quello dietro? Quando incontriamo per strada qualcuno che vediamo a Messa tutte le domeniche, siamo capaci di salutarlo?
Gesù ci propone qualcosa di diverso, ci chiama ad una vita in cui non c'è posto per l'individualismo, ci chiama ad una vita di comunità, ci chiama a prenderci cura gli uni degli altri, ad aiutare il fratello che sbaglia a cambiare, non con un giudizio che ha i tratti della condanna, ma con l'attenzione e la carità, ci invita a pregare gli uni per gli altri, a vivere in comunione. 
La vita comunitaria è sicuramente più impegnativa e, a volte, faticosa che una vita di individualismo ma è immensamente più bella! Vivere la propria fede in una comunità, che sia la parrocchia, il movimento ecclesiale, la comunità religiosa, è scoprire di non essere degli individui ma di essere fratelli, è comprendere di non essere soli perché figli di uno stesso Padre che ci raccoglie attorno a Sé e ci invita a sostenerci a vicenda. Quanto è bello sapere di non essere soli, di avere qualcuno accanto che affronta la vita come te ma anche insieme a te, sapere che se stai vivendo un momento difficile hai accanto qualcuno che forse non te lo potrà risolvere ma che potrà aiutarti a portarne il peso.
Per vivere una vera vita di comunità sono però necessarie due cose: molto amore per i fratelli che ci faccia pensare prima a loro che a noi stessi e molta umiltà che ci faccia riconoscere i nostri limiti e difetti, questo ci metterà al riparo dal giudizio e dalla critica che sono veleni micidiali che dividono e rendono tutti infelici. 
Ancora una volta sembra che il Signore ci chieda tanto ma quello che ci dona è molto di più, è questione di come vogliamo vivere la nostra fede, la scelta è nostra! Se vogliamo fidarci del Signore Gesù e iniziare a pensarci parte di una comunità possiamo fare qualche piccolo passo magari iniziando a presentarci e a salutare il fratello che ogni domenica è seduto accanto a noi ma con cui non abbiamo mai nemmeno scambiato una parola, un gesto semplice ma che, ne sono certo, ci darà tanta serenità e pace e inizierà a farci gustare la bellezza di vivere insieme come fratelli. 

sabato 30 agosto 2014

Questione di progetti - Riflessione sul Vangelo di domenica 31 agosto 2014

Abbiamo tutti vite diverse, impegni diversi, situazioni personali e familiari diverse, eppure tutti cerchiamo una sola cosa: la felicità.
Ognuno però ha una propria idea di felicità, per qualcuno è la carriera brillante e di successo, per qualcun altro è il divertimento, per altri è una bella famiglia, per altri ancora è avere una bella casa... potremmo andare avanti all'infinito, ognuno di noi associa la propria idea di felicità a qualcosa di specifico, raramente è una sola cosa, spesso è un'insieme di elementi, quasi mai riusciamo ad arrivare ad avere tutto quello che ci eravamo prefissati per cui la maggior parte di noi si accontenta e si fa bastare quello che ha. 
Ma è davvero così? Davvero la nostra felicità dipende da questi fattori, dalla buona riuscita dei nostri progetti?
Ecco il vero problema: i nostri progetti! Sì, perché tutti abbiamo progetti in mente, tutti pensiamo di sapere come dovrebbe girare il mondo (o per lo meno la nostra vita) stabiliamo cosa sia un successo e cosa sia una perdita, esultiamo per l'uno e ci demoralizziamo per l'altro e così la vita è una continua altalena. Ma quante volte ci è già accaduto che un evento che avevamo giudicato un disastro si è poi rivelato un'occasione preziosa e quante altre volte un successo si è rivelato solo apparente?
I nostri progetti hanno un difetto: ci somigliano! Come noi sono imprecisi, arrangiati, non tengono conto di tutte le variabili, non hanno ben chiara la meta e come arrivarci...
Da tutto questo sistema, che ci crea solo pasticci, se ne esce in un solo modo: abbandonando i nostri progetti imprecisi e iniziando a seguire i progetti di Dio che sono precisi, infallibili, accurati, che hanno una meta precisa e una via certa. 
Gesù ci chiede di abbandonare il nostro modo di pensare e di iniziare a pensare come pensa Dio, di iniziare a fidarci di Lui, dei suoi progetti anche quando la strada sembra quella sbagliata perché umanamente sembra di perdere. 
Gesù ci invita a prendere la nostra croce e a seguirlo, disposti a perdere la vita... ma quante pretese!?!
Ma cos'è veramente la croce? 
Se la leggiamo secondo gli uomini è uno strumento di sofferenza e di morte e noi la pensiamo sempre così, ci ritroviamo poi a pensare che il Signore voglia vederci soffrire o che, per lo meno, lo pretenda come biglietto d'ingresso per il Paradiso.
Se invece la leggiamo secondo Dio la croce diventa il luogo del dono d'amore più grande, del dono totale di se stesso per noi ed è un amore così grande che fa dimenticare anche la sofferenza e il dolore.
Detto così sembra un po' troppo teorico, facciamo un esempio. Pensiamo a una mamma che abbia un figlio di pochi giorni, i neonati spesso scambiano il giorno con la notte e alle 3 del mattino piangono disperati perché hanno fame. La mamma si deve alzare per allattare il pargolo e non penso lo faccia saltando dal letto ed esultando per essere stata svegliata per la ventesima notte di seguito a quell'ora! Eppure lo fa, con fatica e  sofferenza ma lo fa e lo fa per amore e quell'amore vince la fatica e la sofferenza. 
Gesù questa domenica ci chiede di perdere per lui la nostra vita, cioè di abbandonarci alla sua volontà, rinunciando ai nostri progetti, lo fa non perché abbia necessità di noi ma per offrirci una vita vera, piena, gioiosa perché quando compiamo la volontà di Dio nella nostra vita troviamo la nostra pienezza, troviamo quella felicità che per tanto tempo siamo andati cercando in molte cose ma senza trovarla. 
Ne vale la pena! Vale davvero la pena rinunciare a noi stessi, in fondo rinunciamo a ben poco ma in cambio il Signore ci dona molto di più, ci dona la vita eterna!!!

venerdì 8 agosto 2014

Oltre le nostre paure - Riflessione sul Vangelo di domenica 10 agosto 2014

La vita è già abbastanza complicata...
Quante volte ci siamo trovati a dire o ad ascoltare questa frase? Sì, perché spesso la nostra vita è davvero complicata e faticosa. Ma cos'è che la rende così?
I fattori possono essere molti am questa domenica Gesù ci aiuta a metterne a fuoco due: la paura e la presunzione di sapere come debbano andare le cose.
Dopo la moltiplicazione dei pani, l'evangelista Matteo ci riferisce che Gesù dovette costringere i suoi discepoli a partire in barca per l'altra riva del Mare di Galilea, che poi è solo un lago e nemmeno tanto grande. Ma perché dovette costringerli, perché non volevano andare? Non per riguardo a Gesù, perché non volevano lasciarlo solo ma perché sapevano bene che dopo il tramonto del sole sul lago si scatenano molto spesso venti molto forti e ne avevano una gran paura. Quando poi Gesù va loro incontro camminando sulle acque ricadono nuovamente nella paura, credono infatti, che Gesù sia un fantasma, e la loro presunzione di sapere come funzionano le cose li rende incapaci perfino di riconoscere Gesù; anche Pietro, che in uno slancio di fiducia cammina sulle acque verso Gesù, alla prima difficoltà si lascia prendere dalla paura e inizia ad affondare.
È la paura che ci fa affondare, che ci fa dubitare del Signore, di quello che ci chiede e ci propone. Anche noi, come i discepoli, pensiamo di sapere come debbano andare le cose, pensiamo di dover contare solo sulle nostre forze e sulle nostre conoscenze, facciamo fatica a fidarci debbano andare le cose, pensiamo di dover contare solo sulle nostre forze e sulle nostre conoscenze, facciamo fatica a fidarci del Signore, specie quando ci chiede qualcosa che è al di fuori dei nostri programmi o al di là delle nostre sicurezze. Anzi, proprio per non trovarci a doverci misurare con quanto temiamo, spesso preferiamo non ascoltare proprio quello che il Signore ci chiede, preferiamo restare con le nostre certezze e sicurezze.
Gesù invece ci spinge a superare le nostre paure e a mettere in discusione le nostre sicurezze, non per fare di noi dei temerari incoscienti con sprezzo del pericolo e pronti a tutto ma chiedendoci di fidarci di Lui, della sua parola e della sua provvidenza.
Gesù non vuole farci affondare nel mare del dolore ma farci affrontare le tempeste della vita con la sicurezza che quando siamo con Lui, quando compiamo la sua volontà, quando ci fidiamo di quello  che ci chiede, troviamo la serenità e la pace.
Iniziamo, allora, questa domenica a dire al Signore: voglio fidarmi di te anche quando mi chiedi qualcosa di cui non penso di essere capace, quando credo di sapere come debbano andare le cose e mi sembra impossibile che possano andare diversamente da così.
Scegliere di fidarsi del Signore più che delle proprie paure non è facile ma è ciò che fa la differenza tra una vita con l'acqua alla gola e una vita che giunge serenamente alla riva.

venerdì 1 agosto 2014

Un poco che diventa tutto - Riflessione sul Vangelo di domenica 3 agosto 2014

Lo dicono tutti, e ne siamo tutti convinti, viviamo in una società stressata e siamo tutti stressati!
Sembra un luogo comune, invece è una triste realtà: abbiamo mille impegni, attività, scadenze, molti di noi vivono come se la sopravvivenza del mondo intero dipendesse da loro, gli altri non arrivano a tanto ma poco ci manca. Ci preoccupiamo per un sacco di cose, vaghiamo a destra e a sinistra in cerca di qualcuno che ci dia un'idea buona, un suggerimento, un consiglio per andare avanti, per risolvere i problemi, per affrontare le difficoltà.
In questo mare di voci che chiedono, pretendono, suggeriscono, informano, gridano, la voce di Dio è una delle tante, la vita cristiana è un impegno tra gli altri, per lo più lo espletiamo con la Messa domenicale e, forse, con una preghiera un po' di fretta la mattina o la sera, perché noi abbiamo tante cose a cui pensare.
Anche le folle ai tempi di Gesù andavano vagando "come pecore senza pastore" ed Egli ne ebbe compassione, ne comprese, cioè le ansie e le preoccupazioni, si prese cura di ciascuno, guarì i malati, insegnò a guardare alla vita con la serenità che nasce quando si compie la volontà del Padre.
Anche a noi fermarci ad ascoltare la Parola di Dio, partecipare alla Messa domenicale, pregare un po', fa bene, ci distende, ci rilassa, ci permette di mettere la vita nelle mani del Signore e lasciarci coccolare da Lui.
Ma poi la Messa finisce e tutto il coro delle altre voci ricomincia, riprendono le ansie e le preoccupazioni, le stesse che avevano i discepoli quella sera di duemila anni fa: hanno bisogno di mangiare, mandiamoli nei villaggi così ognuno si procurerà il cibo necessario. Torniamo, cioè, a dover provvedere da soli alla nostra vita, ad affannarci per riuscire a mettere qualcosa nel piatto, a pagare le bollette...
La risposta di Gesù lascia perplessi i discepoli e forse anche noi: "Non occorre". Non ce n'è bisogno perché c'è Lui, c'è Gesù che ha compassione di quella gente, sa cosa provano, sa quali problemi li preoccupano, sa quali sono i bisogni di ciascuno. Il resto lo sappiamo: prende i cinque pani e i due pesci e sfama tutta quella folla sterminata, ma se lo ha fatto una volta, perché non può farlo ancora? Perché non può prendersi cura anche di noi?
A differenza di quella folla, noi ce ne andiamo, cerchiamo altrove il nostro cibo, il nostro nutrimento, andiamo a chiedere ad altri ciò che ci necessita per vivere, ma gli altri ci danno un cibo terreno, che deperisce (oggi diremmo che ha la data di scadenza) e che non ci sazia.
Che vuol dire? Che dovremmo restare in chiesa tutto il giorno?
No, ovviamente, ma restare con il Signore Gesù, sì! Restare con Lui significa lasciarsi sfamare da Lui, lasciare che prenda il nostro poco e lo moltiplichi, tutto il nostro poco! Viviamo fino in fondo il nostro oggi, consegnandolo tutto al Signore: il nostro lavoro, i nostri impegni di studio, il nostro essere genitori, figli, nonni, fratelli, amici, consegnandogli quello che ci preoccupa, quello che ci sembra che non ci possa bastare e lasciando che provveda Lui a moltiplicarlo.
Se ora state pensando che a dirlo sembra facile ma poi le bollette arrivano lo stesso, vi posso assicurare che se davvero consegniamo tutta la nostra vita al Signore, ma deve essere davvero tutta, non possiamo tenere sotto il nostro controllo nulla, se gli doniamo tutto non ci mancherà mai nulla di quello di cui abbiamo veramente bisogno, di ciò che è davvero necessario. Moltissimi santi di tutti i tempi hanno sperimentato direttamente la grandezza della Provvidenza di Dio ma anche tantissimi fratelli oggi possono testimoniare la stessa cosa. Se a noi non è ancora successo è perché non siamo ancora stati capaci di questo atto di fiducia vero, pieno e totale, ancora ci teniamo qualcosa per noi, ancora non pensiamo che veramente il Signore Gesù possa prendersi cura di noi fino nelle più piccole cose. E invece è proprio così, Gesù ha tanta compassione per ciascuno di noi, ci ama di un amore tenerissimo e non ci vuole far mancare nulla, non ci chiama a vite di privazioni, digiuni e astinenze, ci invita a nutrirci innanzi tutto di Lui e poi a lasciare che sia Lui a guidare la nostra vita, tutto questo perché ci ha amato fino a dare la sua vita per noi.

sabato 26 luglio 2014

Quanto di più prezioso possiamo avere - Riflessione sul Vangelo di domenica 27 luglio 2014

A tutti, sicuramente, è capitato di desiderare qualcosa intensamente e di essere disposti a privazioni e sacrifici per poterla ottenere, che fosse un giocattolo quando eravamo bambini o a una vacanza quando eravamo più grandi, tutti, chi per una cosa, chi per l'altra, abbiamo rinunciato ad altro per conquistare ciò che in quel momento ritenevamo la cosa più importante della nostra vita. Se ricordate bene, per quanto impegnativi e faticosi siano stati quei sacrifici, li abbiamo fatti con gioia perché ci permettevano di realizzare il nostro sogno.
Anche da grandi ci guardiamo intorno e cerchiamo di capire per cosa valga la pena di fare sacrifici, per cosa impegnarsi fino in fondo. Per alcuni è il lavoro, l'affermazione professionale, per altri è la propria arte, per altri ancora la propria famiglia, tutte cose che riempiono la vita, o almeno che sembrano riempirla ma che, in realtà, lasciano sempre degli spazi vuoti che non permettono di sentirsi veramente e pienamente soddisfatti.
Ma c'è qualcosa per cui valga davvero la pena di giocarcisi la vita? Sì, il Regno di Dio!
Il Regno di Dio è quella perla preziosa, quella che non assomiglia a nessun altra, è quel tesoro che non ha eguali, che non puoi nemmeno paragonarlo con altri perché è una categoria a parte, gli anglofoni direbbero è un outsider. Il problema è che invece lo giudichiamo con gli stessi parametri con cui giudichiamo gli altri aspetti della nostra vita: guadagno, convenienza, comodità.
Il Regno di Dio va valutato, invece, come si valuta il capolavoro di un grande artista, non si può metterlo a confronto con altri. Che senso avrebbe, per esempio, confrontare il Giudizio Universale di Michelangelo con Guernica di Picasso? Sono due capolavori incommensurabili!
Entriamo, allora, in un ordine di idee diverso, iniziamo a lasciarci raggiungere da Dio attraverso la sua parola, lasciamo che ci faccia comprendere quale tesoro immenso è il suo Regno per la nostra vita, quanto possa trasformarla, portandoci verità, bontà e giustizia.
Il re Salomone lo aveva compreso bene, infatti, quando all'inizio del suo regno ha la possibilità di chiedere qualcosa a Dio egli chiede un cuore docile che sappia distinguere il bene dal male, che sappia riconoscere la verità e, poiché Dio solo è verità, Salomone chiede un cuore che sappia riconoscere Dio stesso.
Ma è davvero così importante per la nostra vita accogliere il Regno di Dio? È molto più che importante, è ciò che la cambia!
Accogliere Dio nella nostra vita, affidare a Lui ogni cosa è permettergli di operare in noi, è lasciargli trasformare anche il male che ci opprime, perfino il male che abbiamo scelto di compiere, i nostri peccati, in occasioni di bene. San Paolo ci ricorda che "tutto concorre al bene di coloro che amano Dio" (Rm 8,28) cioè il Signore trasforma il male che è presente nella nostra vita in una via di salvezza.
Possiamo anche farne a meno, ma poi il male continuerà a farci male, a portarci sofferenze, a farci soffrire.
Mettiamoci anche noi in cerca di questa perla preziosissima che è il Regno di Dio, disponiamoci a rinunciare a tutto per poterne fare parte, sembra un sacrificio grande ma quello che si ottiene è molto più prezioso, importante, bello di quello che lasciamo.