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sabato 27 settembre 2014

Libertà e obbedienza - Riflessione sul Vangelo di domenica 28 settembre 2014

Una delle occupazioni più impegnative nella vita di un prete in parrocchia è il contatto e l'ascolto delle persone che vengono a chiedere qualcosa, sia un certificato di battesimo piuttosto che l'iscrizione dei figli a catechismo o la celebrazione di un anniversario di nozze. È un'occasione preziosa per conoscere tante persone ma anche per farsi un'idea della società in cui viviamo. Quanti svolgono una professione "a diretto contatto col pubblico" penso condivideranno con me una preoccupazione che si fa più pressante con l'andare del tempo: assistiamo ad una deformazione dell'idea di libertà sempre più intesa come il diritto di fare e avere tutto quello che voglio quando lo voglio e alle condizioni che detto io. Libertà è la parola d'ordine dei nostri tempi, in suo nome vengono combattute campagne ideologiche sempre più aggressive e violente, si pretende di imporre la propria libertà senza rendersi conto che così si annulla la libertà altrui. I mezzi di comunicazione ci danno continua conferma di questa distorsione ideologica che ci rende tutti ciechi schiavi dei nostri capricci e dei nostri istinti: quando ci troviamo davanti all'impossibilità di soddisfare i nostri desideri del momento diamo in escandescenza, ci arrabbiamo e, sempre più frequentemente, compiamo gesti esagerati e gravi.
Il Signore Gesù che ci vuole veramente liberi, non schiavi delle nostre passioni, ci propone una via diversa che passa per l'obbedienza.
Nella nostra società "obbedienza" è diventata quasi una parolaccia, la si usa ancora con i bambini (ma anche con loro sempre meno e se ne vedono gli effetti) ma a noi adulti solo l'idea di dover obbedire a qualcosa o a qualcuno ci fa venire l'orticaria.
Questa ostilità all'idea di obbedienza è frutto di una distorsione del concetto stesso: pensiamo che obbedire significhi fare il volere di un altro ad esclusivo suo vantaggio. In fondo siamo tutti costretti ad obbedire a qualcun altro il quale ci fa fare le cose che non vuole fare lui, scarica, cioè, su di noi ciò che a lui non piace. L'idea che abbiamo di obbedienza è la relazione padrone-schiavo.
Il paradosso è che questa obbedienza che tanto ci disturba è quella che viviamo ogni giorno nei confronti dei nostri istinti, delle nostre passioni, dei nostri desideri.
Quante volte ci troviamo a fare qualcosa che sappiamo farci male e poi diciamo "è più forte di me"? E cos'è questa se non un'obbedienza schiavistica alle nostre debolezze?
L'obbedienza che Gesù ci insegna mostrandocela è ben diversa, è obbedienza vera e insieme libertà vera perché è obbedienza alla volontà del Padre.
Per capirla dobbiamo partire da un assunto che di per sé è più che evidente ma che non sempre abbiamo ben chiaro: Dio non ha bisogno delle nostre buone azioni, né ha bisogno che facciamo le cose al suo posto. Ha creato il mondo e la scienza ci sta aiutando a capire con quale meravigliosa precisione l'ha fatto, non ha certo bisogno di me e dei miei lavori arrangiati e imprecisi. Se dunque Dio mi chiede di obbedire alla sua volontà e non lo fa per Se stesso, lo fa per me, per il mio bene. L'unico fine della volontà di Dio, infatti, è il mio bene. Quando decido di obbedire a Dio non sto rinunciando alla mia libertà, anzi la sto usando nel modo più giusto: sto scegliendo ciò che mi fa bene anche se a prima vista non mi piace.
Il verbo obbedire significa ascoltare con attenzione, dunque se inizio ad ascoltare con attenzione il Signore che mi parla, imparo a scoprire che veramente Dio vuole solo il mio bene, che mi vuole salvare dalle mie schiavitù, dal male che mi tiene veramente prigioniero.
Gesù dice ai farisei che pubblicani e prostitute passeranno avanti nel Regno dei Cieli, sta forse suggerendo ai farisei di iniziare a commettere peccati gravi? Evidentemente no! Perché, allora, passeranno avanti loro? Perché chi è nel peccato grave, prima o poi, comprende di trovarsi imprigionato, di essere schiavo dei propri istinti più bassi, dell'avidità, della lussuria, dell'invidia e se in quella situazione ascolta l'annuncio di salvezza di Gesù ecco che sceglie e decide di abbandonare le schiavitù, di smettere di obbedire al male per iniziare ad obbedire a Dio che mi indica il mio bene.
Perché i farisei (e spesso noi con loro) non lo comprendono? Perché pensano di essere già giusti perché non hanno commesso grandi peccati e continuano a vivere una vita che è in ascolto di Dio solo quando è proprio necessario, che è obbedienza al proprio concetto di giustizia e di correttezza ma non alla Parola di Dio.
Gesù non è un insegnante di teoria, uno che ti spiega il concetto e poi lascia a te trovare il modo di applicarlo. Gesù ci mostra con la sua vita cosa sia l'obbedienza al Padre e questa obbedienza è la Croce "umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce" (Fil 2,8). Vale qui lo stesso principio già detto: il Signore non aveva bisogno di morire in croce, non è servito a Lui, serviva a noi, eravamo noi quelli che dovevano essere liberati dalla disobbedienza del peccato, lo ha fatto con un'obbedienza piena, totale, fino alla morte e alla morte più infame.
Se lo ha fatto Gesù possiamo farlo anche noi, possiamo anche noi iniziare ad ascoltare con attenzione il Padre che ci indica la via della verità della nostra vita, possiamo cominciare anche noi a disobbedire al male, al peccato, alle nostre debolezze e iniziare ad obbedire a Dio che ci conduce alla pienezza di gioia e di vita eterna.













sabato 20 settembre 2014

Collaboratori nell'edificazione del Regno - Riflessione sul Vangelo di domenica 21 settembre 2014

Mi è capitato più volte di trascorrere dei giorni di ritiro spirituale in una struttura poco fuori Roma, su una collina e la sera spesso andavo nella parte più alta e guardavo la città davanti a me. Quante luci, quante case, quanti palazzi, quante automobili... dall'alto Roma sembra un grande formicaio di gente indaffarata. Quanti impegni, quante attività, quanti lavori, compiamo ogni giorno, a volte sembra che non abbiamo il tempo di fare tutto, altre ci sembra di fare tanto ma non concludere nulla.
Arriviamo alla sera stanchi e abbiamo sicuramente fatto tante cose ma ci siamo mai chiesti perché le facciamo?
In altre parole: per chi stiamo lavorando?
Consideriamo tutta la nostra vita, tutti i nostri impegni, tutte le nostre attività, non solo quella lavorativa, per chi facciamo tutto questo?
A queste domande sembra possano esserci migliaia di risposte, a stringere però le possibilità sono solo due: io o Dio, in altre parole il mio benessere o la gloria di Dio
Quando cerco il mio benessere, come gli operai della parabola, seguo la logica del guadagno: Più lavoro e più devo guadagnare. Questo principio è sicuramente valido nel campo del lavoro retribuito ma non funziona nel resto della vita. Non lo possiamo applicare alla cura per i figli, per esempio, altrimenti ognuno di noi avrebbe con i propri genitori un debito economico spaventoso! Non possiamo nemmeno applicarlo all'attenzione per gli amici: se un'amicizia è regolata dall'interesse personale non è più un'amicizia. Anche la beneficenza può essere fatta alla ricerca del proprio benessere quando cerco la riconoscenza e l'ammirazione degli altri.
A ben guardare però ciò che facciamo nella ricerca del nostro benessere non è mai qualcosa che ci riempie veramente, ci soddisfa poco, non ci fa sentire utili, non dà senso alla nostra vita.
Il Signore Gesù ci propone una visone totalmente diversa della nostra vita, ci viene incontro e ci invita a lavorare nella sua vigna, per il suo Regno. Ci propone di cambiare mentalità e abbandonare la logica del guadagno e aprirci alla logica della Provvidenza della fiducia in Lui che non ci fa mancare nulla di ciò di cui abbiamo bisogno, che si prende cura di ciascuno di noi.
Lavorare per il Regno di Dio non significa abbandonare il proprio posto di lavoro e partire missionari per terre lontane (per qualcuno magari è così ma non tutti di certo!), non significa dover stravolgere la propria vita ma abbandonare i propri schemi mentali e lasciarsi guidare da Dio che ci chiama.
Non importa in quale ora della vita sono, non importa se sono giovane o adulto o anziano, il Signore mi chiama oggi a servizio della sua vigna che è la Chiesa. Il Signore sceglie me! Con tutte le mie debolezze, con tutte le mie fragilità, con tutte le mie mancanze!
Già questo dovrebbe farci saltare di gioia: Dio si fida così tanto di me da chiedermi di collaborare con Lui nell'edificazione del suo Regno... e se ha fiducia è perché mi ama davvero!
Ci sono persone che farebbero i salti mortali per poter lavorare al fianco di personaggi importanti nel loro campo professionale, persone che sono disposte a lavorare senza compenso... e noi? Dio ci chiama a lavorare con Lui... e ci pensiamo anche?
Probabilmente ci troviamo tentati di chiedere cosa ci offre, se è vantaggioso quello che ci propone...
Lo è, vi assicuro! Dio non ci fa mai mancare nulla di ciò di cui abbiamo bisogno, fin nel minimo dettaglio, colma la nostra vita della sua pace e della sua gioia, quelle vere, quelle che nessun guadagno, nessun successo terreno potranno mai darci.
Oggi il Signore viene nella tua vita e ti dice: vieni a lavorare con me! A noi non resta che rispondere
come Maria: Eccomi!

venerdì 12 settembre 2014

Non c'è amore più grande - Riflessione sul Vangelo di domenica 14 settembre 2014

Se dovessi paragonare la nostra società ad un'età della vita non avrei proprio alcun dubbio: l'adolescenza! Quell'età in cui pensi di sapere tutto, di saper fare tutto, di bastare a te stesso! A che ti servono gli adulti? A che ti serve studiare? A che ti servono le regole? Tu sai tutto, tu sei onnipotente! Ci siamo passati tutti, chi più, chi meno, ma tutti quanti abbiamo pensato di bastare a noi stessi.
Così è la nostra società, orgogliosa delle sue scoperte scientifiche, delle sue invenzioni tecnologiche, delle sue idee progressiste, avanza sicura di sé, troppo sicura di sé, convinta di bastare a se stessa. Il problema è che anche noi ci lasciamo convincere, pensiamo che nella vita ognuno debba essere libero di fare quello che gli passa per la testa perché cerchiamo di convincerci che le nostre azioni non hanno conseguenze o effetti collaterali. Certo sarebbe bello poter fare quel che mi va senza dover poi subire le conseguenze delle mie decisioni ma, siamo obbiettivi, è un comportamento da adolescenti!
Il progresso scientifico e le aziende che ci guadagnano sopra ci stanno spingendo a crederci sempre di più onnipotenti, di saper fare tutto e di poter fare tutto. Bene inteso la ricerca scientifica è cosa buona così come il progresso tecnologico, purché non ci montino la testa e non ci facciano perdere di vista quello che siamo: uomini, fragili, deboli e, soprattutto, mortali. C'è infatti una cosa che nessuno scienziato è mai stato capace di fare ridare la vita a ciò che è morto. La morte è, a bene pensarci, la conseguenza del nostro delirio di onnipotenza: ci pensiamo così indipendenti, così autosufficienti, da poter fare a meno di Dio, di poter fare a meno dell'Autore della vita, ma senza di Lui noi siamo solo fragili mortali in cammino verso la tomba.
La grande paura di ogni uomo, infatti, è proprio la morte e dietro ogni nostra paura è, in realtà, celata la paura della morte perché la morte è l'unica cosa che non siamo capaci di evitare, di risolvere.
Dunque dobbiamo rassegnarci a morire? Dobbiamo accettare il fatto che la nostra esistenza si infrangerà inesorabilmente contro questo muro invalicabile?
No, Dio non ci ha lasciato soli! Dio non ci lascia in preda alla morte, sa che da soli non possiamo sfuggirle, che da soli non possiamo sconfiggerla e sceglie di compiere l'inaudito: si fa Lui fragile, debole, mortale, si fa Lui uno di noi, prende Lui su di Sé la nostra morte per poterla vincere, per sconfiggerla per noi, sceglie di morire al posto nostro e nel modo più atroce.
Il Signore Gesù ha scelto di rinunciare alla sua eternità, alla sua immortalità, alla sua onnipotenza, per prendere su di Sé la conseguenza del nostro peccato, della nostra ribellione a Dio, del nostro delirio di onnipotenza, perché Lui solo poteva sconfiggere la morte perché Lui solo sa donare vita a ciò che è morto, con la sua morte da vita alla nostra morte, la sconfigge, la annulla.
Ma era davvero necessario? Ma non poteva salvarci con una sola parola? Sì, certamente, ma che fine avrebbe fatto la nostra libertà? Che fine avrebbe fatto la nostra possibilità di amare?
Gesù sceglie di svuotarsi di se stesso per farsi come noi e offrirci la salvezza, senza imporcela.
Dunque non ci impone la vita eterna ma per accoglierla ci chiede un atto di libertà, ci chiede di fidarci di Lui, di fidarci più di Lui che delle nostre paure -e noi ci fidiamo tanto delle nostre paure, infatti ci fanno fare un sacco di cose che altrimenti non avremmo mai fatto- ci chiede di guardare alla Croce, di credere in Lui morto, perché solo se crediamo alla sua morte possiamo credere alla sua resurrezione e così diventare partecipi della sua vita eterna.
Il Signore ci chiede di alzare lo sguardo verso di Lui crocifisso, di non aver paura di guardare in faccia la morte in Lui morto per noi nella certezza che la morte non può più farci paura perché Gesù l'ha vinta per noi, l'ha annientata!
Alziamo allora lo sguardo al Crocifisso, riconosciamo nella Santa Croce lo strumento con cui il Signore Gesù ha scelto di dare la sua vita per amore di ciascuno di noi. Se ad un certo punto della mia vita dovessi trovarmi a dubitare dell'amore di Dio o dovessi aver paura della morte, una paura che mi porta a fare cose sconsiderate, basterà alzare lo sguardo verso il Crocifisso e dire "Gesù, Tu sei morto per me, per donarmi la tua vita eterna, sei Tu il Signore della mia vita!"
Non aspettiamo però i momenti difficili, non aspettiamo di essere disperati, impariamo da subito a contemplare l'amore del Signore per ciascuno di noi nella sua morte in Croce, iniziamo da subito a guardare al Crocifisso con uno sguardo diverso, non dobbiamo aver paura della morte, andiamo oltre, contempliamo l'Amore, l'Amore che ha portato Dio a farsi come noi per fare noi come Lui.

sabato 6 settembre 2014

Non individui ma fratelli - Riflessione sul Vangelo di domenica 7 settembre 2014

"L'uomo è un animale sociale" sentenziava duemila e trecento anni fa Aristotele, e aveva ragione!
Abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, abbiamo bisogno di vivere in società, di contribuire gli uni alla vita degli altri, anche i più scontrosi, riservati e misantropi non possono pensare di vivere una vita nella totale solitudine. 
La nostra società ha tanti difetti, tanti problemi ed errori, i notiziari ci confermano quotidianamente che ci sono molte sofferenze, molte difficoltà, che tante persone invece di contribuire alla vita altrui si impegnano a distruggerla o semplicemente la ignorano.
L'indifferenza è il vero male della nostra società: siamo indifferenti a quello che accade a chi ci sta accanto, non ci preoccupiamo di come stia il vicino di casa, forse non ne conosciamo nemmeno il nome, non ci interessa se il nostro collega sta affrontando un momento di difficoltà o di dolore. Tutti, chi più chi meno, pensiamo a noi stessi, a risolverci i nostri problemi, a provvedere alle nostre necessità, qualche volta facciamo un po' di beneficenza perché comunque abbiamo nel cuore qualcosa che ci dice che non possiamo proprio ignorare completamente i bisogni dei più poveri ma, in fondo, è più per pacificarci la coscienza che per vero amore verso il fratello indigente. 
Vivendo tutti in questa società ci troviamo inevitabilmente contagiati da questo individualismo che, piano piano, ci sta portando a vivere in questo modo anche la vita di fede. Molte persone partecipano alla Messa domenicale un po' come se partecipassero ad un concerto o una conferenza: con molta attenzione a ciò che viene detto dal sacerdote ma piuttosto indifferenti a chi è seduto accanto nello stesso banco. Proviamo a ripensare all'ultima volta che siamo stati a Messa: conoscevamo le persone che erano sedute accanto a noi o nel banco davanti o in quello dietro? Quando incontriamo per strada qualcuno che vediamo a Messa tutte le domeniche, siamo capaci di salutarlo?
Gesù ci propone qualcosa di diverso, ci chiama ad una vita in cui non c'è posto per l'individualismo, ci chiama ad una vita di comunità, ci chiama a prenderci cura gli uni degli altri, ad aiutare il fratello che sbaglia a cambiare, non con un giudizio che ha i tratti della condanna, ma con l'attenzione e la carità, ci invita a pregare gli uni per gli altri, a vivere in comunione. 
La vita comunitaria è sicuramente più impegnativa e, a volte, faticosa che una vita di individualismo ma è immensamente più bella! Vivere la propria fede in una comunità, che sia la parrocchia, il movimento ecclesiale, la comunità religiosa, è scoprire di non essere degli individui ma di essere fratelli, è comprendere di non essere soli perché figli di uno stesso Padre che ci raccoglie attorno a Sé e ci invita a sostenerci a vicenda. Quanto è bello sapere di non essere soli, di avere qualcuno accanto che affronta la vita come te ma anche insieme a te, sapere che se stai vivendo un momento difficile hai accanto qualcuno che forse non te lo potrà risolvere ma che potrà aiutarti a portarne il peso.
Per vivere una vera vita di comunità sono però necessarie due cose: molto amore per i fratelli che ci faccia pensare prima a loro che a noi stessi e molta umiltà che ci faccia riconoscere i nostri limiti e difetti, questo ci metterà al riparo dal giudizio e dalla critica che sono veleni micidiali che dividono e rendono tutti infelici. 
Ancora una volta sembra che il Signore ci chieda tanto ma quello che ci dona è molto di più, è questione di come vogliamo vivere la nostra fede, la scelta è nostra! Se vogliamo fidarci del Signore Gesù e iniziare a pensarci parte di una comunità possiamo fare qualche piccolo passo magari iniziando a presentarci e a salutare il fratello che ogni domenica è seduto accanto a noi ma con cui non abbiamo mai nemmeno scambiato una parola, un gesto semplice ma che, ne sono certo, ci darà tanta serenità e pace e inizierà a farci gustare la bellezza di vivere insieme come fratelli.